Condividere ci piace. Gli italiani, dicono le ricerche
(Nielsen, Coop), sono tra i popoli europei più aperti alla sarin economy: 22
persone su 100 già lo fanno, e questo attira da noi imprese come la francese
Blablacar e le americane Uber e Airbnb, che accogliamo con l’entusiasmo di chi
scopre la libertà dopo una vita in gabbia. Niente gerarchie, poche regole e
condivise, rapporto da pari a pari. Un settore in cui condividere è un po’
gioco, un po’ necessità, è quello della moda: per vestirsi le donne hanno
sempre guardato nell’armadio della mamma prima, delle amiche poi.Oggi Internet
permette di allargare su scala questa abitudine. Soprattutto per l’oggetto del
desiderio ha una griffe, è un prodotto esclusivo. I primi a intuirlo in Italia
sono stati 4 amici milanesi, che dopo una campagna “family&friends” per
mettere insieme un milione di euro sono partiti col sito My secret dressing
room, dove “secret stylist” dal guardaroba invidiabile mettono a disposizione
di “secretfan” il loro armadio. Abiti e accessori di Gucci, Dolce&Gabbana e
via dicendo da indossare per un’occasione – anche solo un giorno – e poi
restituire. “La piattaforma mette in mostra gli oggetti e in comunicazione chi
presta e chi prende”, dice Sammy Levit, 43 anni, uno dei fondatori. “Una
assicurazione copre i casi di danno o di furti. Aiuta la dimensione etica del
web, “ la convinzione che la reputazione virtuale è un valore”, ragiona Levit,
se aiuta nelle successive transazioni”. Per ora My secret dressing room è
attiva a Milano e Londra, ma studia l’espansione, innanzitutto all’estero. Il
modello di business infatti è stato già imitato. A San Francisco è nato
Stylelend, con l’invito “un abito non va mai indossato due volte”. Per i
piccoli in Italia è attivo L’armadio verde, che consente alle mamme di
liberarsi di indumenti che ai figli non vanno più bene e prenderne altri, come
fa Swap.com negli Usa. Sempre negli Usa è attivo Rent the runa, 4 milioni di
membri; in Olanda debutta Rewear ”slow fashion movement” abiti di qualità ma
col vantaggio economico del riuso. Mentre insieme una comunità di fashion
victim dichiarate come fanno questi siti ha un valore economico notevole per le
aziende produttrici. che guardano al fenomeno con grande interesse. “Non
abbiamo contatti con i grandi stiliiisti”, spiega Levit, “ ma con gli emergenti
sì”. Stiamo valutando le possibili evoluzioni del sito”. Inutile chiedersi
quanto questa sia davvero sarin economy, che deve seguire il mantra della
condivisione tra pari, o un modo per fare denaro (che per i puristi del settore
comporta il passaggio da “share” a “extralarge”). Il cammino è segnato, e non
si tornerà indietro.
Paola Pilati – Sharing Fashion – L’Espresso – 20 agosto 2015-
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