Era il 9 Agosto 2012 quando il segretario del Pd
siciliano Giuseppe Lupo formalizzò la candidatura di Rosario Crocetta alla
presidenza della regione Sicilia. L’ex sindaco antimafia di Gela, gay, cattolico
e comunista appariva l’unica carta per provare a conquistare la regione, dopo
il disastro Pd di pochi mesi prima. Alle primarie per la candidatura a sindaco
di Palermo lo sconosciuto Fabrizio Ferrandelli aveva sconfitto Rita Borsellino,
sostenuta dall’allora segretario Pier Luigi Bersani, e stracciato il leopoldino
Davide Faraone, amico di Matteo Renzi che aveva spedito a Palermo il guru
Giorgio Gori a organizzare la sua campagna elettorale. Alle elezioni comunali,
però Ferrandelli era stato travolto dal ritorno dell’eterno Leoluca Orlando,
già sindaco nel 1985 con la Dc. La candidatura di Crocetta era nata così: il Pd
non poteva permettersi una nuova débacle alla vigilia delle elezioni politiche
del 2013 e con IL Movimento 5 Stelle in crescita. Il maverick di Gela, il
cavallo pazzo fuori dagli schemi, sembrava l’uomo giusto per arginare l’ondata
anti-politica, come sarà qualche mese dopo Ignazio Marino a Roma. E oggi da
possibile soluzione, come Marino, è diventato per Renzi il problema. Tornare
subito al voto significa per il premier consegnare la Sicilia al Movimento 5
Stelle. Andare avanti con Crocetta significa esporsi al cortocircuito
mediatico-giudiziario-politico. Per
questo si cerca la via di mezzo, voto in primavera e nuova coalizione allargata
a pezzi del centrodestra in disarmo: dal Partito della Nazione al Partito
dell’Isola. Da tempo la politica siciliana ha smesso di seguire gli
schieramenti nazionali: già con Raffaele Lombardo i partiti si erano spaccati
secondo logiche impossibili da decifrare da Roma. Trasformismi, alleanze
friabili che si compongono e si sciolgono in poche settimane. Il sistema
Crocetta, con la regia del senatore Giuseppe Lumia, la convivenza del Pd con
una lista del presidente ( il Megafono), ha portato la decomposizione a
compimento, nell’impotenza dei vertici romani. Ieri Bersani, oggi Renzi. Fino
agli ultimi giorni, il patto tra largo del Nazareno e i signori della guerra
dell’isola prevedeva che i siciliani in Italia si sarebbero limitati a spostare
i consensi sul leader di turno (nel 2012 vinse Bersani con il 66 per cento, un
anno dopo Renzi con il 60) e i vertici di Roma non avrebbero messo bocca sulle
scelte locali. Un’autonomia siciliana, chiamiamola così, che si è dimostrata
disastrosa. Ora tramonta l’antimafia di facciata, trasformata in un
neo-conformismo con cui si fa carriera, in nome dei martiri come Paolo
Borsellino. Finisce la breve era del governatore Crocetta. Ma il modello
siciliano resta l’immagine di cosa può diventare un sistema politico senza
principio d’ordine, con un leader autocratico, le correnti di partito come
capitani di ventura e i solidissimi interessi delle lobby fuori da regole e
controlli. E il futuro scontro elettorale nell’isola, tutti insieme dal Pd
all’Ncd di Angelino Alfano alle schegge dell’ex Forza Italia contro M5S,
prefigura già la partita che si giocherà con l’Italicum. La Sicilia come
metafora, diceva Sciascia. Dell’Italia, della politica che verrà.
Marco Damilano – Il caso Crocetta – L’Espresso – 30 luglio
2015 -
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