Da credente, vorrei ritornare sul tema del perdono, che lei
vede come uno dei fattori della “doppia coscienza”. Il suo punto di vista a me
pare viziato da un preconcetto laico, purtroppo giustificato dal comportamento
di noi cattolici latini, che ci presentiamo davanti a Dio come se Egli fosse un
sempliciotto che si fa abbindolare dai nostri sotterfugi. Il giudizio di Dio
sui nostri comportamenti è imperscrutabile e nessun umano può immaginarlo. Il
perdono divino è la capacità di dimenticare, dal momento che in noi si verifica
un vero pentimento, che solo Lui può giudicare, e una vera con-versione. La
confessione per me è il più alto dei sacramenti: il riconoscimento della
propria colpa, il chiamare Dio a testimone e in soccorso del proprio
pentimento. Se invece crediamo che così ci siamo solo lavati la coscienza e
tutto ricomincia come prima, siamo falsi e sarà Dio a giudicare, non il povero
prete che accoglie le nostre parole. Nella mia semplicità di madre, penso che
Dio si comporti con noi come noi con i nostri figli: li perdoniamo
all’infinito, sempre credendo in loro.
Patrizia Tazza – patrizia tazza@virgilio.it
Ci sono dei credenti caratterizzati dal loro incrollabile
dogmatismo che, a sentire il più grande psicopatologo del Novecento, Karl
Jaspers, cercano nella fede una sicurezza che manca alla loro personalità, e
perciò non sono tanto dei “credenti” (Glaudende) quanto dei “militanti della
fede” (Glaubenskampfer). Con costoro non è possibile instaurare un dialogo,
perché il recinto della dia logicità è precluso dalla loro incrollabile e
minacciosa sicurezza (bebrohende Sicherheit). Ci sono invece dei credenti che
non discutono su Dio, perché semplicemente ne sentono la presenza e a lui si
rapportano con gli strumenti del cuore, capace di creare immagini come quella
da le proposta: “Dio si comporta con noi, come noi con i nostri figli”. Con
costoro io riesco a parlare, non perché creda in Dio ma perché l’immagine di
Dio che mi offrono, la assumo come una metafora dell’amore, per capire il
quale, abbiamo bisogno di simboli potenti che sappiano dire l’invisibile e
l’ineffabile. Allo stesso modo in cui tanta letteratura si è dedicata al
tentativo di approssimarsi al mistero che è l’amore. Siccome penso che la
religione appartiene alla sfera del cuore, come tutto ciò che appartiene al
cuore non è regolata dalla ragione, ma si muove in quello scenario inquietante
dove la maledizione si confonde con la benedizione, il bene con il male, la
gioia col dolore, la legge del giorno con il buio della notte. Questo infatti è
il “sacro” che, come vuole l’etimologia indoeuropea, significa “sparato” dalla
vita quotidiana di tutti i giorni regolati dalla razionalità, nata come difesa
dall’invasione minacciosa del sacro, del quale la follia non è altro che un
segno del tratto sconvolgente.(..). Per questo sono nate le religioni, per
“re-legare”, recintare, contenere l’area del sacro, per difendere la comunità
dalla sua possibile invasione, e per la stessa ragione gli uomini hanno sempre
offerto sacrifici agli déi, non per ottenere grazie, ma per tenerli lontani. E
perciò hanno separato gli spazi sacri (templi, chiese, moschee, sinagoghe)dagli
spazi profani, e per il contatto col sacro hanno preposto i “sacer-doti” persone
che si intendono di cose sacre e perciò sono “consacrate” e separate dal resto
della comunità. Smarrito il senso del sacro, il cristianesimo ha immaginato un
Dio in ogni suo aspetto buono assegnando il male a Satana, suo avversario. Dal
Dio buono scende la misericordia e il perdono, amministrato dai sacerdoti in
confessione, dove si perdonano le deroghe (i peccati) alle regole predicate dal
pulpito. (..)…anche la colpa diventa irrilevante e più non tormenta la
coscienza, che così è indotta a trattare con disinvoltura regole e deroghe a
seconda delle convenienze. Tanto c’è il perdono.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 18 aprile 2015
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