Fu nel 1947,68 anni or sono, che la forma più estrema di quel
disturbo mentale che affligge tanto di noi ebbe il primo nome, quello dei
fratelli Homer e Langley Collier. Nel primo giorno di primavera, il 21 marzo,
la polizia sfondò la porta del loro appartamento ad Harlem, richiamata dai
miasmi che si sprigionavano dall’abitazione. All’interno, trovarono qualcosa
che nessun agente di polizia, nessun vigile del fuoco, aveva mai visto prima:
15° tonnellate di rifiuti di ogni genere accatastate in due stanze e un
bagnetto, montagne di giornali, cascate di abiti, carcasse di televisori,
frigoriferi defunti, piramidi di mobilio, slavine di quadretti e soprammobili,
sacchi di cibo ormai immangiabile. E sepolti vivi, uccisi dalle cose che
avevano accumulato in quarant’anni di vita in comune, i due fratelli Homer e
Langley, Homer soffocato nel tunnel che aveva scavato per raggiungere il
fratello e che gli era franato addosso come in una miniera, Langly, paralizzato
da u ictus e immobilizzato, morto di fame e di sete. Una nuova malattia
mentale,allora battezzata “Sindrome di Collier”, oggi conosciuta come
“disposofobia” era stata individuata e aveva meritato addirittura una lunga
serie di documentari trasmessi per tre anni dalle televisioni nazionali. Sono
casi di inspiegabile orrore, dai 350 gatti collezionati in casa da Edith
Bouvier, cugina prima di Jacqueline Kennedy, alle tonnellate di ciarpame che
avevano imprigionato e ucciso una coppia ottantenne di Chicago, Jesse e Thelma
Gaston. (..). E’ la patologia degli hoarder,
dei raccoglitori estremi, opposta a quella dell’usa-e-getta. Un bisogno
compulsivo di acquisire e conservare, un mal sottile che colpisce con
particolare virulenza i cosiddetti empry nester, le coppie di mezza età che
hanno visto volare via dal nido i figli ormai grandi e restano soli in grandi
case dove gli oggetti diventano gli altari di una famiglia che non c’è più.
(..). Tutti, o quasi tutti noi, soffriamo di qualche forma benigna di
“disposofobia”, senza arrivare all’estremo dei fratelli Collier. Io ho
conservato per anni biglietti del tram che mi avevano trasportato a partite di
calcio importanti o al primo incontro con la ragazza dei sogni. Ho cassetti
stracolmi di badge di plastica per l’accesso e l’accreditamento stampa a eventi
di ogni tipo, dai quali mi guardano centinaia di me stesso prima giovane e
sorridente e poi via via più vecchio e annoiato. E centinaia, migliaia di foto
di parenti, figli, nipoti, parenti che non oso buttare per scaramanzia. Mia
moglie conserva cataste di piatti, pentole e coperte e lenzuola ormai inutili,
come io le dozzine di antidiluviani computer portatili che rifiuto di gettare
perché dentro ognuno di loro ci sono, come nelle padelle di mia moglie,
frammenti della mia fatica e della mia vita. Ma non finirà come la cugina di
Jackie con 250 gatti (anche perché al pelo di gatto sono allergico), né come i
Collier. La decisione irrevocabile è presa: getterò via tutto. Nella primavera
del prossimo anno, s’intende.
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica – 18 aprile 2015 -
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