Se “simulare” significa “far apparire come reale ciò che non
lo è”, “fingere di sentire ciò che in realtà non si sente”, perché oggi,
nell’uso corrente della lingua, la simulazione è fondata, legittima, anzi
auspicabile per la buona riuscita di un compito, di un esame, di una
situazione? Le faccio un esempio: noi docenti nella scuola superiore abbiamo
l’obbligo di effettuare alcune simulazioni delle prove d’esame.(..). Mi chiedo
quale pensiero si cela dietro questa progressiva rivalutazione di un
atteggiamento simulatorio. Forse l’idea di un perfezionismo che escluda a
priori ogni imprevisto, riducendo al minimo il margine di rischio implicito in
ogni esperienza, mentre la possibilità del fallimento è una componente ineliminabile
dell’apprendimento e del progresso? Cosa ancora più allarmante, come sarà
possibile per le nuove generazioni affrontare le innumerevoli prove della vita
e il rischio, il non prevedibile, l’inaspettato, che sempre l’esperienza porta
con sé? (..).
Ci sono due significati del termine “simulazione”. Uno da lei
ottimamente esemplificato,in cui si simula una catastrofe per essere preparati
qualora dovesse accadere, oppure la simulazione di un esame per conoscere le
modalità con cui si svolge, o la simulazione di un colloquio di lavoro per
avere un’idea delle domande onde meglio rispondere all’attesa di chi lo
conduce. Questo tipo di simulazione: è una strategia a cui l’umanità è ricorsa
fin dai tempi più remoti per difendersi dall’angoscia dell’imprevedibile che
paralizza. Giusto per fare un esempio, uno dei primi problemi che l’uomo ha
dovuto affrontare è stato trovare cibo e non diventare cibo per gli altri. E
solo con la simulazione di incontri con animali feroci l’umanità ha risolto, se
non il primo, senz’altro il secondo problema. Ma c’è un’altra simulazione,
forse più interessante, che riguarda le persone definite “isteriche”, che
simulano sofferenze che in realtà non hanno. Prima di Freud i simulatori erano
considerati dei bugiardi e non di rado screditati e puniti. Freud, invece,
avanzò l’ipotesi che i simulatori non fossero dei bugiardi, ma semplicemente
delle persone che, non riuscendo a ottenere una migliore condizione della loro esistenza
con una semplice richiesta verbale, erano costrette a ricorrere al linguaggio
del corpo che, esibendo sofferenze di ogni tipo, consentiva loro di procurarsi
quella cura che con il linguaggio verbale non avrebbero mai ottenuto. (..).
Intesa come linguaggio, la simulazione, in questi casi, non è l’inganno di un
malato di mente, ma l’estremo tentativo di un individuo incapace altrimenti di
farsi ascoltare. In un contesto culturale come il nostro, in cui non si nega
nulla al malato, è inevitabile il ricorso alla simulazione per orientare
diversamente il comportamento di chi non ci ascolta. Se i medici fossero più
attenti ai fenomeni della simulazione, potrebbero orientare meglio le loro
pratiche di cura, e capire che, talvolta, attraverso il linguaggio del corpo,
quel che il paziente chiede è: “Faccia in modo che dal mio certificato risulti
che chi mi sta vicino deve smettere di tormentarmi”. A questo punto possiamo
davvero condannare la simulazione, o non piuttosto la nostra incapacità o
insofferenza ad ascoltare quanto ci comunica il linguaggio verbale, per cui non
resta che ricorrere al linguaggio del corpo, e quindi alla simulazione della
malattia, per instillare sentimenti d’amore o sensi di colpa capaci di
promuovere la risposta desiderata?
umbertogalimberti@replubblica.it
– Donna di Repubblica – 11 aprile 2015
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