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venerdì 10 aprile 2015

Lo Sapevate che: Il Destino? E' questione di carattere...



A proposito del perdono, la signora Rossi, su D, le ha scritto che “esser giusti non basta, se poi gli altri non lo sono al pari mio o nei miei confronti”, e che “il persono è divino”, cioè appartiene a Dio. Lei le ha risposto che la virtù non è tale se ha un valore utilitaristico, come diceva Kant, e che il perdono è un dono che si fa all’altro, senza perciò cancellare  il male compiuto. E se invece no si trattasse neppure di questo? Se la vera disposizione d’animo di chi “perdona” non dovesse essere altro che quella di chi accetta l’atto compiuto perché non poteva essere altrimenti? Che non c’è un bel niente da perdonare, insomma, ma solo da accettare, perché le contingenze hanno fatto sì quello. e solo quello, potesse accadere? In fondo sarebbe un sollievo sapere che quello che ci ha offeso è avvenuto come necessità e non per colpa di qualcuno, né della vittima, né del carnefice. (..). Per finire, se c’è qualcosa di molto “divino” (umano, troppo umano, dirette Nietzsche) è la nostra voglia di renderci superiori all’altro, per un attimo “divini”, convinti di avere addirittura il potere di perdonare! L’unico vero sforzo che abbiamo da compiere, alle volte, è perdonare noi stessi Serena Vinci serena­_vinci@virgilio.it
La sua lettera pone un problema: quanto le azioni degli uomini sono libere e perciò suscettibili di essere premiate, punite o perdonate, e quanto invece sono frutto del destino, per cui non vanno né premiate, né punite, né perdonate, mai, come lei dice, “semplicemente accettate, perché le contingenze hanno fatto sì che quello, e solo quello, potesse accadere”. Mi pare che lei propenda per la seconda ipotesi, come per altro faccio anch’io, perché penso che la nostra persuasione di essere liberi nasce dal fatto che non prestiamo attenzione alle condizioni – o addirittura le ignoriamo – per cui compiamo una certa azione invece di un’altra. A partire dalla nascita, passando per i vissuti infantili e successivamente per le esperienze che si maturano nell’ambiente in cui viviamo e nelle relazioni che stabiliamo con gli altri,si forma infatti in noi un certo carattere o “identità” che non possiamo tanto facilmente cambiare a piacimento, perché proprio sulla sua permanenza o sostanziale immutabilità si fonda il riconoscimento sociale che ci proviene dagli altri e la relazione di fiducia o sfiducia che gli altri ripondono in noi. E’ a partire da questa identità e riconoscibilità che noi ci fidiamo o non ci fidiamo di qualcuno, e diciamo sorpresi “da lui non me lo sarei mai aspettato”, quando l’immagine che ci siamo fatti di una persona viene smentita dalle sue azioni.(..) In vista della punibilità, tutte le società diffondono l’idea di libertà e quindi di responsabilità che noi introiettiamo nella nostra identità comportandoci da persone responsabili. Ma chi per nascita, per precoci abbandoni, per condizioni ambientali, per carenze educative, per mancata istruzione compie atti irresponsabili, compie azioni frutto della sua libertà, oppure frutto delle condizioni in cui è cresciuto, quindi conseguenti “di necessità”? (..). Vedo che le sentenze dei tribunali iniziano a prendere in considerazione queste differenze e, nel farlo, confermano che le nostre azioni non sono davvero “libere”, ma conseguenti “di necessità” all’identità, che, per mille diverse circostanze, abbiamo avuto la sorte di costruirci in un modo piuttosto che in un altro. Per questo, più che di “libertà”, dobbiamo parlare di “cado”, a cui segue un “destino”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna  di Repubblica – 4 Aprile 2015

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