A proposito del perdono, la signora Rossi, su D, le ha
scritto che “esser giusti non basta, se poi gli altri non lo sono al pari mio o
nei miei confronti”, e che “il persono è divino”, cioè appartiene a Dio. Lei le
ha risposto che la virtù non è tale se ha un valore utilitaristico, come diceva
Kant, e che il perdono è un dono che si fa all’altro, senza perciò
cancellare il male compiuto. E se invece
no si trattasse neppure di questo? Se la vera disposizione d’animo di chi
“perdona” non dovesse essere altro che quella di chi accetta l’atto compiuto
perché non poteva essere altrimenti? Che non c’è un bel niente da perdonare,
insomma, ma solo da accettare, perché le contingenze hanno fatto sì quello. e
solo quello, potesse accadere? In fondo sarebbe un sollievo sapere che quello
che ci ha offeso è avvenuto come necessità e non per colpa di qualcuno, né
della vittima, né del carnefice. (..). Per finire, se c’è qualcosa di molto
“divino” (umano, troppo umano, dirette Nietzsche) è la nostra voglia di
renderci superiori all’altro, per un attimo “divini”, convinti di avere
addirittura il potere di perdonare! L’unico vero sforzo che abbiamo da
compiere, alle volte, è perdonare noi stessi Serena Vinci serena_vinci@virgilio.it
La sua lettera pone un problema: quanto le azioni degli
uomini sono libere e perciò suscettibili di essere premiate, punite o
perdonate, e quanto invece sono frutto del destino, per cui non vanno né
premiate, né punite, né perdonate, mai, come lei dice, “semplicemente
accettate, perché le contingenze hanno fatto sì che quello, e solo quello,
potesse accadere”. Mi pare che lei propenda per la seconda ipotesi, come per
altro faccio anch’io, perché penso che la nostra persuasione di essere liberi
nasce dal fatto che non prestiamo attenzione alle condizioni – o addirittura le
ignoriamo – per cui compiamo una certa azione invece di un’altra. A partire
dalla nascita, passando per i vissuti infantili e successivamente per le
esperienze che si maturano nell’ambiente in cui viviamo e nelle relazioni che
stabiliamo con gli altri,si forma infatti in noi un certo carattere o
“identità” che non possiamo tanto facilmente cambiare a piacimento, perché
proprio sulla sua permanenza o sostanziale immutabilità si fonda il
riconoscimento sociale che ci proviene dagli altri e la relazione di fiducia o
sfiducia che gli altri ripondono in noi. E’ a partire da questa identità e
riconoscibilità che noi ci fidiamo o non ci fidiamo di qualcuno, e diciamo
sorpresi “da lui non me lo sarei mai aspettato”, quando l’immagine che ci siamo
fatti di una persona viene smentita dalle sue azioni.(..) In vista della
punibilità, tutte le società diffondono l’idea di libertà e quindi di
responsabilità che noi introiettiamo nella nostra identità comportandoci da
persone responsabili. Ma chi per nascita, per precoci abbandoni, per condizioni
ambientali, per carenze educative, per mancata istruzione compie atti
irresponsabili, compie azioni frutto della sua libertà, oppure frutto delle
condizioni in cui è cresciuto, quindi conseguenti “di necessità”? (..). Vedo
che le sentenze dei tribunali iniziano a prendere in considerazione queste
differenze e, nel farlo, confermano che le nostre azioni non sono davvero “libere”,
ma conseguenti “di necessità” all’identità, che, per mille diverse circostanze,
abbiamo avuto la sorte di costruirci in un modo piuttosto che in un altro. Per
questo, più che di “libertà”, dobbiamo parlare di “cado”, a cui segue un
“destino”.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 4 Aprile 2015
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