Come far crescere l’economia dopo sei anni di recessione e
con segni evidenti di deflazione? L’esperienza del passato, i migliori resti di
economia, i maggiori economisti mondiali, i politici più avveduti e anche i
normali cittadini non avrebbero esitazione a rispondere: occorre ridare fiato
alla domanda attraverso maggiori salari, maggiore spesa pubblica e/o minori
tasse, una politica monetaria accomodante e acquisti di titoli pubblici da
parte della banca centrale. Ma questa ricetta non è applicabile in Europa,
perché non tutti i paesi si trovano nella stessa situazione, non esiste un
governo europeo che possa lanciare una simile politica, La Banca Centrale
Europea non può acquistare titoli pubblici a piacimento e, soprattutto, in
Europa (e in Italia) non tutti credono che i problemi vengano da una carenza di
domanda. Anzi, diciamolo chiaramente la maggioranza degli economisti e dei
politici (e quindi anche i cittadini comuni) pensa che per ripartire siano
necessarie solo molte riforme per migliorare un’offerta inadeguata a causa del
forte ritardo preso rispetto agli altri paesi. Questo Mantra delle riforme è ormai così forte e
diffuso anche nel nostro paese, che appare difficile se non impossibile lottare
contro. Ma da dove viene questo feticcio delle riforme? Da lontano. L’ondata
nacque con la crisi da petrolio del 1973. Si trattò per la prima volta (dal
dopoguerra) di uno shock da offerta che venne affrontato, erroneamente,
attraverso politiche keynesiane che non funzionavano. La gran parte degli
economisti sentenziò (giustamente allora) che erano necessari aggiustamenti sul
lato dell’offerta più che sostegni alla domanda. Ma da allora le cose sono
cambiate notevolmente. Non per il mondo dell’economia e della politica.
Convinti dal 1973 che i problemi non erano congiunturali ma strutturali, gli
economisti, i politici e, quindi, anche i cittadini, sono rimasti affezionati
alla teoria delle riforme per far ripartire l’economia. E’ così sono decenni
che parliamo di riforme. Eppure di riforme in Italia ne abbiamo fatte anche di
importanti (pensioni, mercato del lavoro, contrattazione salariale, enti
locali, ecc.). Ma ogni nuovo governo che arriva (ne abbiamo avuti tantissimi)
per legittimarsi afferma che finalmente riformerà il paese. Con il risultato
che l’opinione pubblica resta convinta che non si sia fatto nulla. Né le
statistiche aiutano a risolvere questo dilemma. Chi sostiene che siano
necessarie le riforme cita il calo della produttività, la perdita di competitività
a seguito dell’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto, la crescita
della disoccupazione giovanile e altro. Ma l’andamento di tutti questi
indicatori è determinato dal crollo della produzione che, a sua volta, dipende
dalla caduta della domanda interna, sicchè resta il dubbio se servano riforme o
sostegno alla domanda. (..) Bisogna Fare Buon Viso a cattivo gioco e diventare
riformisti seppure riluttanti. Si facciano queste riforme una volta per tutte,
ma in maniera eclatante, per poi prendere anche la via del sostengo alla
domanda. Per questo l’abolizione del famoso articolo 18 dello statuto dei
lavoratori è un’ottima occasione. A detta di tutti riguarda solo un numero
limitato di casi che possono essere risolti in un altro modo. Ma la sua abolizione
ha un forte valore simbolico grazie al tabù che ne hanno fatto i sindacati e la
destra italiana. Tale abolizione può essere il simbolo di una vera riforma che
ci farà passare dalla parte di quanti avranno già dato e si potrà così parlare
di rilancio della domanda interna, a cominciare da un buon sistema di
ammortizzatori sociali che difenda i troppi disoccupati e li indirizzi verso
nuovi lavori.
icipoll@lin.it – Innocenzo Cipolletta-Si può
fare-L’Espresso – 2 ottobre 2014
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