Come un fiume carsico riemerge in questi giorni una questione
che ha attraversato tutta la storia dei partiti: il rapporto tra il partito e
gli eletti nelle assemblee rappresentative. Il forte richiamo del segretario
del Pd all’obbedienza dei parlamentari rispetto alle scelte della direzione del
partito riporta indietro di molti decenni l’orologio della politica italiana
quando, nella sinistra, imperava il dogma della preminenza del partito sui
rappresentanti. Coloro che sedevano in
parlamento non erano altro che l’espressione nelle istituzioni delle volontà
delle masse. L’idea che essi potessero rappresentare interessi ulteriori a
quelli della classe operaia non era nemmeno concepibile. I parlamentari erano
dei “delegati” in senso stretto, cioè operavano in quel contesto istituzionale
in nome e per conto del partito. Questa prassi è stata adottata in maniera
ferrea dal Partito comunista italiano e, in misura meno stringente, dagli altri
partiti; la Democrazia cristiana, invece, non se ne curava più da tanto. Del
resto quello che più contava nella “balena bianca” era che gli eletti
seguissero le indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche e del Vaticano, le
vere fonti di legittimazione dell’attività dei democristiani. La Crisi Verticale dei vecchi partiti negli anni Novanta ha ribaltato, anche teoricamente,
quello schema. Alla figura del deputato-delegato si è sostituita quella,
definita dalla costituzione ma bellamente disattesa per anni, del
deputato-responsabile, espressione degli interessi collettivi della nazione al
di sopra e al di fuori degli interessi partitici. Questo rovesciamento di
posizione, con rappresentanti finalmente liberi dal vincolo di mandato, era il
portato della disistima e sfiducia nei partiti: mentre questi ultimi perdevano
centralità nel processo decisionale, i deputati, che godevano della
legittimazione fornita dal voto popolare, diventavano gli unici intitolati a
decidere (per il bene collettivo, ovviamente). Lo sganciamento dei
rappresentanti dai vincoli di mandato nei confronti dei propri partiti di
appartenenza ha avuto alcuni effetti perversi, al di là di una accelerazione
della personalizzazione della politica: tra questi, il balletto degli eletti
tra le varie formazioni politiche, con un tasso di cambio di casacca
incompatibilmente alto rispetto agli altri parlamenti europei, e una
iper-produzione di micro-leggi legate agli interessi dei singoli parlamentari e
non più contenute dall’orizzonte collettivo del partito. Forza Italia incarnava
questa nuova centralità dell’eletto rispetto al dirigente del partito. E mentre
la Lega rimaneva invece nel suo bozzolo riaffermando a suon di espulsioni un
ferreo vincolo di mandato, a sinistra, in una fase turbolenta di ridefinizione
delle proprie strutture organizzative (dal Pds ai Ds al Pd), questa visione
prendeva piede, soprattutto a livello locale dove sorgeva infatti un nuovo
notabilato. Ora Sembra che il pendolo sia stato bruscamente
riportato al Novecento. Da un lato Beppe Grillo, con una certa coerenza, invoca
l’abolizione dell’articolo 67 della Costituzione che vieta il mandato
imperativo spazzar via ogni infingimento sul controllo ferreo che egli esercita
sui suoi eletti: dall’altro il segretario del Pd richiama tutti alle antiche
prassi del “centralismo democratico” e dell’ubbidienza dei parlamentari. La
sostanziale autonomia decisionale dei rappresentanti prodotta dalla
demonizzazione dei partiti dello scorso decennio è ormai sotto scacco. Non che
i partiti abbiano guadagnato stima e considerazione in questi ultimi anni,
tutt’altro. Però, quando emergono leadership forti il bastone del comando
ritorna nelle mani del partito. E ancora di più, quando, come nel caso del Pd,
anche il leader, allo stesso modo dei parlamentari, può vantare una
legittimazione popolare, attraverso le primarie. In questo caso la
giustificazione su cui poggia l’autonomizzazione dei parlamentari sfuma. In
sostanza, il braccio di ferro tra direzione di partito e gruppo parlamentare è
vinto da chi sa esercitare una vera leadership. Non contano le regole formali,
contano i rapporti di forza. E nel Pd è chiaro dove sta la “forza”. Per ora.
Piero Ignazi – Potere&poteri – L’Espresso – 9 ottobre
2014 -
Nessun commento:
Posta un commento