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giovedì 9 ottobre 2014

Lo Sapevate Che: Leadership forte deputato debole.....



Come un fiume carsico riemerge in questi giorni una questione che ha attraversato tutta la storia dei partiti: il rapporto tra il partito e gli eletti nelle assemblee rappresentative. Il forte richiamo del segretario del Pd all’obbedienza dei parlamentari rispetto alle scelte della direzione del partito riporta indietro di molti decenni l’orologio della politica italiana quando, nella sinistra, imperava il dogma della preminenza del partito sui rappresentanti. Coloro che  sedevano in parlamento non erano altro che l’espressione nelle istituzioni delle volontà delle masse. L’idea che essi potessero rappresentare interessi ulteriori a quelli della classe operaia non era nemmeno concepibile. I parlamentari erano dei “delegati” in senso stretto, cioè operavano in quel contesto istituzionale in nome e per conto del partito. Questa prassi è stata adottata in maniera ferrea dal Partito comunista italiano e, in misura meno stringente, dagli altri partiti; la Democrazia cristiana, invece, non se ne curava più da tanto. Del resto quello che più contava nella “balena bianca” era che gli eletti seguissero le indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche e del Vaticano, le vere fonti di legittimazione dell’attività dei democristiani. La Crisi Verticale dei vecchi partiti negli anni Novanta ha ribaltato, anche teoricamente, quello schema. Alla figura del deputato-delegato si è sostituita quella, definita dalla costituzione ma bellamente disattesa per anni, del deputato-responsabile, espressione degli interessi collettivi della nazione al di sopra e al di fuori degli interessi partitici. Questo rovesciamento di posizione, con rappresentanti finalmente liberi dal vincolo di mandato, era il portato della disistima e sfiducia nei partiti: mentre questi ultimi perdevano centralità nel processo decisionale, i deputati, che godevano della legittimazione fornita dal voto popolare, diventavano gli unici intitolati a decidere (per il bene collettivo, ovviamente). Lo sganciamento dei rappresentanti dai vincoli di mandato nei confronti dei propri partiti di appartenenza ha avuto alcuni effetti perversi, al di là di una accelerazione della personalizzazione della politica: tra questi, il balletto degli eletti tra le varie formazioni politiche, con un tasso di cambio di casacca incompatibilmente alto rispetto agli altri parlamenti europei, e una iper-produzione di micro-leggi legate agli interessi dei singoli parlamentari e non più contenute dall’orizzonte collettivo del partito. Forza Italia incarnava questa nuova centralità dell’eletto rispetto al dirigente del partito. E mentre la Lega rimaneva invece nel suo bozzolo riaffermando a suon di espulsioni un ferreo vincolo di mandato, a sinistra, in una fase turbolenta di ridefinizione delle proprie strutture organizzative (dal Pds ai Ds al Pd), questa visione prendeva piede, soprattutto a livello locale dove sorgeva infatti un nuovo notabilato. Ora Sembra che il pendolo sia stato bruscamente riportato al Novecento. Da un lato Beppe Grillo, con una certa coerenza, invoca l’abolizione dell’articolo 67 della Costituzione che vieta il mandato imperativo spazzar via ogni infingimento sul controllo ferreo che egli esercita sui suoi eletti: dall’altro il segretario del Pd richiama tutti alle antiche prassi del “centralismo democratico” e dell’ubbidienza dei parlamentari. La sostanziale autonomia decisionale dei rappresentanti prodotta dalla demonizzazione dei partiti dello scorso decennio è ormai sotto scacco. Non che i partiti abbiano guadagnato stima e considerazione in questi ultimi anni, tutt’altro. Però, quando emergono leadership forti il bastone del comando ritorna nelle mani del partito. E ancora di più, quando, come nel caso del Pd, anche il leader, allo stesso modo dei parlamentari, può vantare una legittimazione popolare, attraverso le primarie. In questo caso la giustificazione su cui poggia l’autonomizzazione dei parlamentari sfuma. In sostanza, il braccio di ferro tra direzione di partito e gruppo parlamentare è vinto da chi sa esercitare una vera leadership. Non contano le regole formali, contano i rapporti di forza. E nel Pd è chiaro dove sta la “forza”. Per ora.
Piero Ignazi – Potere&poteri – L’Espresso – 9 ottobre 2014 -

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