La delega al governo per la riscrittura della normativa sul
lavoro, il famoso Jobs Act, è stata approvata al Senato ed è in discussione
alla Camera. Una caratteristica da tutti
riconosciuta è la sua vaghezza: le linee guida che il Parlamento ha dato
una notevole ampiezza di manovra. Il premier sembra deciso e continua ad
affermare che sì, l’articolo 18 riguarda poche migliaia di persone, ma gli
investitori stranieri sono cocciuti e sembrano dargli una grande importanza perché
genera incertezza. Si potrebbe però aggiungere che la stessa incertezza la
patiscono gli imprenditori italiani e forse i casi non sono moltissimi proprio
perché c’è riluttanza ad andare in tribunale. Tuttavia, la discussione sul solo
articolo 18 rischia di essere fuorviante. La sua riforma è importante ma non è
l’unica barriera ad un mercato del lavoro efficiente. Quindi, poiché le scelte
del governo incideranno negli anni a venire sia sulla famosa “percezione” che
si ha dell’Italia, sia sulla realtà dei fatti, cerchiamo di capire quali sono i
punti essenziali della riforma. Il Contratto A Tutele crescenti. Pare che siano tutti
d’accordo sul principio, salvo che alcuni spingono per arrivare a una forma di
contratto unico che, in cambio di un po’ di flessibilità, spazzi via le 12 (e
non 50, come ha fatto notare il giurista Pietro Ichino) forme di accordo oggi
in vigore. La legge delega contiene in effetti il pericoloso principio di
rendere più svantaggioso il contratto di lavoro fosse inteso come nel codice
civile, un accordo tra due parti con pochi tra due parti con pochi principi
inderogabili e che poi viene declinato negli accordi collettivi , aziendali e
individuali, potrebbe anche andar bene. Se invece si vuole riproporre uno
Statuto del Lavoratori light per di più caricando di oneri contributivi i
datori di lavoro, allora vuol dire che non si è capito niente. Il problema non
è togliere libertà di scelta alle parti contrattuali su come regolare i loro
rapporti, ma diminuire i costi di transazione dovuti alla molteplicità di
regole attraverso un codice semplificativo: al legislatore non dovrebbe
interessare “favorire” il tempo indeterminato su quello determinato. Il Demansionamento. La legge delega lo prevede nel caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione
o conversione aziendale. E’ bene che tali parametri di riferimento siano i più
allargati possibile. Infatti, la possibilità di cambiare mansione ad un
lavoratore, anche in peggio, è essenziale. Prima di tutto è un’alternativa al
licenziamento: se qualcuno non è più all’altezza della qualifica che ha, ma può
ancora essere utile all’impresa, meglio dargli la possibilità di essere
ricollocato al suo interno piuttosto che essere mandato via. Inoltre, la
mancanza di flessibilità verticale fa si che si formi un tappo di persone
demotivate, non aggiornate, poco attive se non proprio pigre che impediscono la
promozione di altre, magari giovani e donne, più qualificate attive ed
entusiaste. Una situazione a perdere per tutti. Infine il famoso articolo 18.
La riforma Fornero pare abbia già contribuito a diminuire il contenzioso, anche
se l’indennità media riconosciuta ai lavoratori sembra essere alta. Perciò un
eventuale intervento deve essere chiaro e semplificatore. Togliere l’art.18 per
i neo-assunti per i primi 3 anni, ad esempio, non ha molto senso: si verrebbe a
creare un ulteriore elemento di discriminazione. Allo stesso modo, nonostante
gli Sms tra Sergio Chiamparino e il premier, lasciare margini di incertezza
sulla licenziabilità per motivi disciplinari
porterebbe a nuovo contenzioso e darebbe quella “percezione” di irresolutezza
che invece si vorrebbe evitare. Poi il Jobs Act contiene molte altre cose,
alcune pericolose per le casse statali, nonostante gli intendimenti di evitare
maggiori oneri per la finanza pubblica, altre di buon senso. Tuttavia è su
questi tre snodi fondamentali che si parrà la nobilitate del governo: soluzioni
pasticciate o di rinvio sarebbero l’esatto contratto del #cambiareverso che è
stato promesso al paese.
adenicola@adamsmith.it
– twitter@aledenicola
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