Capita ancora in certi
angoli di Puglia d’imbattersi in una banda di paese che intona un’aria dal Trovatore o dalla Traviata. Non ho mai capito perché queste esecuzioni di onesti
dilettanti riescano a commuovere quasi come le versioni sublimi di Riccardo Muti. Finché non
ho letto La musica è pericolosa di
Nicola Piovani. Non si tratta di una spiegazione immediata, bisogna leggere
tutto il libro, che è impresa piacevole e facile anche per chi di musica
conosca poco. A differenza di molti suoi colleghi, Piovani nella via non parla
quasi mai di musica, E’ troppo curioso. E’ più facile conoscere il suo pensiero
sulle delle stringhe, il teatro di Eduardo, le divisioni nel Pd o il ruolo di
Gervinho nella Roma, piuttosto che sull’attività cui ha dedicato la vita da
quando, a tre anni, qualcuno gli mise fra le mani una fisarmonica. Anche in
questo libro si comincia a parlare di musica e si finisce molto altrove. E’ il
talento dell’autore, l’arte della variazione. Il musicista Piovani è
straordinario, almeno per me, nel prendere un tema semplice, in genere
popolare, e nel portarlo di variazione in variazione verso territori nuovi,
elevandolo a raffinatezze e complessità del tutto originali. Sarebbe un po’
come partire in un discorso dal testo di Papaveri
e papere per approdare alla dialettica hegeliana. Tutta la musica di
Piovani è un viaggio dal noto all’ignoto. Il contrario della colonna sonora
quotidiana che ormai ci circonda. Come compositore, si è andato a cercare forme
espressive ovunque, nella musica sinfonica come nella colonna sonora
cinematografica, nel jazz e nella tradizione popolare, nella musica greca e nel
rock, nella canzone e nel melodramma. Nella vita si è andato a cercare
l’intelligenza ovunque si trovasse, nell’amicizia con alcune fra le menti
artistiche più brillanti del nostro Paese, da Federico Fellini a Elsa Morante,
da Vincenzo Cerami e Roberto Benigni a Carlo Cecchi, da Fabrizio De Andrè a
Paolo Conte ed Angelo Arpa, padre gesuita. Il risultato finale di tanto
contaminare, come si diceva un tempo, è qualcosa di inconfondibilmente
italiano, ben radicato nella nostra storia. Quando suona Piovani, quando canta
Paolo Conte, quando parla Benigni, ci si sente ancora parte di una patria culturale.
E’ lo stesso sentimento che si prova nello scoprire lo splendore delle nostre
piccole città, la bellezza strappata a
terreni e tempi infami, protetta col sacrificio di generazioni dalle offese
della natura e degli uomini. Lo stupore commosso di fronte a una banda di
dopolavoristi che, in un angolo di Salento, attacca il Trovatore.
Curzio Maltese – Il Venerdì di Repubblica – 24 – ottobre –
2014 -
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