Ho ventidue anni. Non riesco a sentirmi in pace come stessa.
In ogni cosa mi trovo divisa tra il reale e l’ideale. Perché il mondo che vedo
come nemico e che cerco di negare è anche parte di me. Mi permette di andare
all’università, di leggere, di andare al cinema, di mangiare bene. E mentre mi
chiedo che cosa ci sia di così sbagliato in tutto questo, dentro di me grida la
voce dell’indignazione. La consapevolezza non mi rende diversa. (…). Sto zitta
come mi viene detto di fare. Vorrei essere magra e bella. Vorrei essere sempre
al massimo. Vorrei non avere debolezze. Ho idee precise, che non metto in atto.
(…). Rincorro con affanno un senso di appartenenza vero, di cui sento la
mancanza, cercando allo stesso tempo di non conformarmi, ma fallendo ogni
volta, ricadendo nel desiderio di essere come “loro”. Mi sento codarda e
incoerente. (…). Così me ne sto in disparte, perdendo occasioni e non
mettendomi in gioco. Rassegnata già prima di partire. Senza far sentire la mia
voce. Ben attenta a non sbagliare mai. (…). Alla fine quello che mi resta è
solo amarezza. Sono io stessa una parte di quel mondo che disprezzo. Forse le
ho scritto semplicemente per provare a dipanare questa matassa-
Lettera firmata
Un giorno Fred prese a raccontarci una storia interessante,
quando scrisse che, oltre al nostro io, ce rinunciando alla perfezione che esiste
anche un ideale dell’io che pone l’io in uno stato di mortificazione rispetto
agli ideali che vorrebbe realizzare senza riuscirci. Tutto ciò genera
inquietudine, insoddisfazione e in certi casi sensi di colpa. Ora, avere un
ideale di sé è molto utile soprattutto nell’adolescenza e nella giovinezza, per
non accontentarsi di quello che si è e cercare di realizzare quell’immagine di
noi che ci attrae e che, se la raggiungessimo, ci farebbe sentire realizzati.
Quando però l’ideale dell’io fa sentire l’io in uno stato di perenne
inferiorità, allora l’ideale dell’io diventa persecutorio e la vita un
tormento, se non addirittura una malattia, la malattia di un’identità mancata,
per aver posto l’ideale dell’io troppo in alto rispetto alle nostre capacitò di
realizzarlo. A lavorare, sotto sotto,
c’è un’istanza narcisistica che non ci consente di accettarci per ciò che
siamo, se non raggiungiamo l’ideale, che l’io si è prefissato. Da questa guerra
tutta interna a noi stessi, che ci divora e non ci fa mai sentire soddisfatti
dell’esistenza, si esce rinunciando alla perfezione che ci si è autoimposta.
Accettando la parte umbratile della nostra personalità, quella di cui non
andiamo fieri, quella che vorremmo che nessuno scoprisse, quella che ci fa
sentire” punti nel vivo” quando qualcuno ce la svela. (…). Nella disperata
ricerca di una nostra identità collocata là dove i nostri ideali, tiranneggiandoci,
vorrebbero che fossimo e ancora non siamo, dimentichiamo infatti che la nostra
identità non possiamo costruirla da soli, perché a formarla è solo il
riconoscimento che ci proviene dagli altri, esattamente come i lineamenti del
nostro volto che lo specchio non ci restituisce, mentre ce li restituisce lo
sguardo indifferente di un narcisista, quello feroce di un nemico, quello
intenso e incantato di un innamorato. E se è vero che non noi, ma gli altri
costruiscono la nostra identità, esponiamoci al mondo per quello che siamo,
lasciandoci modificare da tutti gli incontri, evitando di cercare noi stessi in quella guerra
inutile tra l’io e il suo ideale che ci isola dagli altri, e non ci fa
approdare se non in quella terra desolata e solitaria, dove a farci compagnia è
solo la nostra insoddisfazione.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 13 settembre 2014
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