Le grandi opere (con
furto) quando servirebbe
un gigantesco rammento
“Siamo un Paese
straordinario e bellissimo, ma anche fragile”. Il discorso di
Renzo Piano sulle
periferie, proposto ali studenti della maturità, è un
classico esempio di buon
senso rivoluzionario. Da molti anni, attraverso
colloqui e interviste, ne discuto con Piano e con i lettori
di Repubblica. E’, o dovrebbe essere, ovvio che l’Italia non ha oggi bisogno di
grandi opere o eventi inutili (se non ai ladroni) come il Mose, la Tav o
l’Expo, ma di un gigantesco rammendo del territorio nazionale, devastato dai
condoni edilizi di Berlusconi, dal consumo scellerato di suolo e terreni
agricoli, da colate su colate di cemento. Non poche colossali cattedrali
tangentizie che costano alla fine decine di miliardi, ma migliaia e migliaia di
piccole opere per rendere anzitutto le periferie più vivibili, le montagne e i
corsi d’acqua più sicuri, i trasporti più civili, l’aria e il suolo più puliti,
la condizione di vita dei cittadini più umana. Sarebbero bastate poche
centinaia di milioni investiti a Milano o a Venezia, al posto dei miliardi
sprecati in Expo e Mose, per cambiare la faccia delle città e delle periferie,
migliorare le esistenze di centinaia di migliaia di persone rinchiuse nei lager
dell’hinterland milanese o a Mestre, e al tempo stesso per attrarre visitatori
dal mondo, creare posti di lavoro e ottenerne un reale vantaggio economico per
tutti.
Assai più reale almeno, di quanto non siano i turisti e i
posti di lavoro immaginari sventolati dai progettisti delle grandi truffe.
Eppure questo semplice buon senso è sempre rimasto minoritario. Per anni, ogni
volta, la reazione prevalente, non solo dei ladroni interessati, ma anche dei
semplici lettori, è stata di fastidio: ma come, non volete mai fare niente? Non
vedete quant’è bello il Ponte sullo Stretto, la Tav, la grande diga della
laguna, quanto lavoro crea, quante opportunità, com’è tutto così moderno? E’
tutta colpa dell’informazione cattiva e corrotta, che crea e diffonde un senso
comune favorevole agli interessi del potere? Sarà vero, ma un po’ troppo
facile. La verità è che l’Italia, oltre a essere fragile nel corpo, lo è
nell’anima, nella psicologia. Una collettività che non si conosce e non si ama
nel profondo e cerca di sfuggire al perenne sentimento eterno d’insicurezza con
l’aggrapparsi a modelli astratti, esteriori, con la stessa superficialità con
la quale da decenni abbocca agli slogan del semplificatore di turno. Fra i
tanti studenti che hanno scelto le parole di Renzo Piano, c’è la classe
dirigente del futuro. E sono loro la vera speranza di cambiamento.
Curzio Maltese – 27 giungo 2014 –
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