Sono una scienziata che ha fatto e continua a fare ricerca
sulle piante transgeniche (Gm). Non ho posizioni “antibiotech”, anzi non mi
stanco mai di ripetere che senza biotecnologie dovremmo rinunciare non solo a
pane, birra, vino, yogurt, antibiotici e cortisone, ma anche a insulina,
interferone e molte altre sostanze fondamentali per la nostra salute, prodotte
con tecniche di ingegneria genetica. (..). Tuttavia nutro alcune riserve sulla
coltivazione in pieno campo delle piante Gm, basate sui dati pubblicati sulle
più importanti riviste scientifiche. Il primo problema riguarda il tipo di
trasformazione genetica delle colture più diffuse – mais, soia,cotone e colza –
modificate nella misura dell’83 per cento con un gene che le rende capace di
tollerare erbicidi. Poiché il transgene è presente anche nel polline, si può
diffondere, per esempio nel caso della colza, a distanze di alcuni km e
ibridare con specie infestanti compatibili, che possono così acquisire la
capacità di tollerare erbicidi, diventando “super infestanti”. Con grave danno
per gli agricoltori, che non disporrebbero più di mezzi per combatterle. Il
secondo problema riguarda l’insorgenza alle tossine Bt – presenti nel mais Gm –
da parte degli insetti nocivi. La strategia messa a punto negli Usa per
ritardare questo fenomeno consiste nell’adozione di zone rifugio, coltivate con
varietà di mais non transgenico, che devono essere almeno il 20 per cento
dell’area totale coltivata a mais Bt. (..). Così le colture transgeniche Bt
diventano uno strumento di selezione di insetti nocivi resistenti alle tossine
Bt che avrebbero dovuto sterminarli. Per quanto riguarda il problema della fame
nel mondo, occorre chiarire che mais, cotone, soia, colza sono colture
industriali. In particolare soia e mais sono utilizzate principalmente per
produrre mangimi animali e quindi carne, latte e formaggio, che cere non sono
destinati ai mercati dei paesi più poveri e affamati. Non escludo che nel
futuro possano essere sviluppate piante Gm altamente produttive,(..). E
comunque se fossero sviluppate, perché le popolazioni povere ne potessero
trarre giovamento, i loro semi non dovrebbero essere sottoposti a brevetto, e
ai costi aggiuntivi relativi né comportare l’uso massiccio di fertilizzanti chimici
ed erbicidi, i cui costi sono proibitivi per l’agricoltura africana. Per
concludere vorrei ricordare la difficoltà di adozione delle distanze di
sicurezza e delle zone rifugio, data la ridotta dimensione delle aziende
agricole italiane. Il problema che si presenterà nel caso della coltivazione di
mais Bt (cotone, soia e colza sono poco rappresentative della realtà agricola
italiana) non sarà solo quello di un’adeguata regolamentazione, ma del rispetto
delle regole. Alle quali è stato dedicato un lungo articolo su “Nature”, in cui
si analizzano i problemi posti dall’eventuale introduzione su larga scala di
riso transgenico in Cina.
Manuela Giovannetti – L’Espresso – 17 luglio 2014 –
Professore Ordinario di
Microbiologia Agraria, Università di Pisa-
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