A Cena In Saracenia
Nella storia del grano saraceno non è tanto interessante
l’errore (a non volerlo conteggiare come gaffe) quando la sua correzione.
Sappiamo come è andata. In un disegno di legge depositato a Montecitorio dal
Movimento Cinque Stelle ci si preoccupa della contraffazione alimentare e della
veridicità del marchio “made in Italy”. Tra gli esempi avanzati, grande
scalpore ha fatto l’affermazione che “un terzo della pasta venduta in Italia è
prodotto con grano saraceno”. Ne sono conseguite molte ironie basate su dati di
fatto che sembrano sfuggire ai legislatori: il grano saraceno è saraceno quanto
il granturco è turco, il grano saraceno viene prodotto in Valtellina, la
Saracenia non è mai esistita (i saraceni erano un popolo nomade), eccetera. Miglior
commento rimbalzato su Twitter: “Contro il grano saraceno ci vuole un pugno di
farro”.
La prima spiegazione dei grillini è stata che si trattava di
un “refuso” (che dovrebbe significare “errore di battitura”): “saraceno” è
scritto al posto di “straniero”. La seconda è che l’errore era già presente in
altre proposte di legge precedenti. Infine uno degli estensori del testo,
Filippo Gallinella, dopo essersi scusato con spirito e ragionevolezza ha
aggiunto: “Se è l’unico modo per far parlare delle proposte continuerò a
commettere errori”.
Impossibile non ripensare a quella barzelletta ebraica che
piaceva tanto a Freud su quello che negava di avere restituito bucato il paiolo
che gli avevano prestato: “Innanzitutto te l’ho restituito intatto. In secondo
luogo era già bucato quando me l’hai dato. Infine, non mi hai mai prestato
nessun paiolo”.
In realtà è curioso come il populismo sia così affezionato
all’argomento dell’italianità, come se la difesa dell’italianità dell’Alitalia”
non abbia dato esiti pressoché disastrosi. Nella difesa dell’italianità della
pasta sfugge un dettaglio: se l’Italia non produce grano a sufficienza e se il
grano straniero (saraceno o no) va bandito, si chiede agli italiani, per legge,
di mangiare meno spaghetti?
Stefano Bartezzagli – L’Espresso – 26 giugno 2014
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