Quei sorrisi su
Facebook delle ragazze uccise
Giudichiamo estranei e
lontani da noi casi come quelli delle giovani indiane violentate e impiccate.
Ma abbiamo rimosso che anche nella nostra cultura fino a poco tempo fa la donna
era proprietà personale dell’uomo
Qualche anno fa ho letto un libro che ho ritrovato oggi. Era
sul fondo di una valigia, dimenticato: “Domani nella battaglia pensa a me” di
Javier Marias (Einaudi). Ricordo di averlo letto con voracità. Un’ansia che mi
porto dietro sin da quando ero ragazzino. Non smettere di leggere, arrivare
fino in fondo, come quando ci si tuffa in acqua e in apnea ci si spinge oltre,
nonostante le orecchie fischino e polmoni sembrino scoppiare, per prendere la
manciata di sabbia di questo libro, con la stessa apnea. Non accadono molte
cose, ma muore una donna giovane, che ha un figlio piccolo che magari
dimenticherà presto quei primi anni. Che magari dimenticherà presto sua madre.
Muore una donna e c’è un uomo, il protagonista, che rende il lettore partecipe
del suo mondo. Di quei mondi che spesso sarebbe meglio se restassero privati.
Di quei mondi che ci si vergogna a invadere. Eppure siamo lì, siamo entrati.
In Quel Libro Che
Credevo Perso, trovo
invece un segnalibro, messo lì perché oggi, per caso, leggessi queste parole:
“ le donne sanno che ciò che ottengono
dagli uomini sono soltanto concessioni – una rinuncia volontaria alla loro
forza, la momentanea assenza del loro autoritarismo – e che possono revocarle
in qualsiasi momento”. Parole come macigni, il cui senso non ho mai
dimenticato. “Rinuncia alla forza”, “rinuncia all’autoritarismo” vuol dire che
la donna, anche quando non sembra più essere così. resta, nella parte più
nascosta e negletta dell’uomo, percepita come una sua proprietà. Prima dei
padri, poi dei mariti e poi dei figli maschi. Tutto questo la nostra cultura lo
ha rimosso: ha cancellato questo tratto che ora consideriamo arretratezza, e
leggiamo le notizie che ci arrivano da lontano come se si trattasse di mondi
ormai estinti i cui echi suscitano l’indignazione del momento, di qualche ora.
Chi sa come reagiremo se ci dicessero che le donne, anche
quando non subiscono violenza, anche quelle più vivine a noi, si trovano a
vivere in condizioni spesso di inadeguatezza psicologica verso un mondo le
vorrebbe perfette in ogni ruolo. In quello di madre, di compagnia e poi di
lavoratrice. Che loro sentono di dover eccellere per poter dimostrare che se
sono amate, se occupano ruoli apicali e di responsabilità è perché lo meritano.
Perché lo meritano davvero e non perché gli è concesso. Esiste su questo uno
studio, “The confidence code”, pubblicato da due giornaliste americane Claire
Shipman e Katty Kay, che sta facendo molto discutere.
Reagiremmo Forse pensando che non c’è alcuna
connessione, né alcuna vicinanza, tra le donne che frequentiamo e le donne che
subiscono violenza. Reagiremmo forse pensando che la violenza sulle donne è da
noi ormai stigmatizzata in ogni sua forma. E avremmo forse ragione, anche se
non riesco a non pensare alle due ragazze appena adolescenti che in India,
precisamente nell’Uttar Pradesh, sono state avvicinate da un gruppo di uomini,
violentate e impiccate. Non riesco a non pensare che quelle due ragazze Dalit,
appartenenti quindi alla classe sociale più bassa, non siano solo vittime di
uomini violenti, ma sono soprattutto vittime di uomini che credono di poter
esercitare su di loro “autorità” e “forza”. Hanno trovato i loro corpi
impiccati ad un albero di mango. Un anonimo fotografo le ha ritratte. Così i
loro corpi hanno fatto il giro del mondo, a volte hanno coperto i visi, altre
volte li hanno lasciati visibili. Una foto che, come qualcuno ha detto, ricorda
i linciaggi e le impiccagioni del Ku Klux Klan negli stati del sud in Usa.
A volte mi domando quale sia la differenza tra tutto questo e
le immagini delle ragazze e delle donne un tempo sorridenti che affollano i
nostri quotidiani, prese dai loro profili face book. Quei sorrisi sono ovunque
fino quasi a diventare persone di famiglia. Mi domando se la nostra voglia di
conoscere i meccanismi di quelle morti, oltre a una sana voglia di verità e
giustizia, non risponda anche alla rimozione di ciò che la nostra società è
stata. Se tutto questo non ci porti indietro mostrando la parte peggiore di
noi, quella che si vorrebbe cancellare ma che la cronaca fa entrare di
prepotenza nelle stanze intime di tutti.
Roberto Saviano – L’Espresso – 3 luglio 2014 –
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