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giovedì 3 luglio 2014

Lo Sapevate Che: L'Antitaliano...



 Quei sorrisi su Facebook delle ragazze uccise

Giudichiamo estranei e lontani da noi casi come quelli delle giovani indiane violentate e impiccate. Ma abbiamo rimosso che anche nella nostra cultura fino a poco tempo fa la donna era proprietà personale dell’uomo

Qualche anno fa ho letto un libro che ho ritrovato oggi. Era sul fondo di una valigia, dimenticato: “Domani nella battaglia pensa a me” di Javier Marias (Einaudi). Ricordo di averlo letto con voracità. Un’ansia che mi porto dietro sin da quando ero ragazzino. Non smettere di leggere, arrivare fino in fondo, come quando ci si tuffa in acqua e in apnea ci si spinge oltre, nonostante le orecchie fischino e polmoni sembrino scoppiare, per prendere la manciata di sabbia di questo libro, con la stessa apnea. Non accadono molte cose, ma muore una donna giovane, che ha un figlio piccolo che magari dimenticherà presto quei primi anni. Che magari dimenticherà presto sua madre. Muore una donna e c’è un uomo, il protagonista, che rende il lettore partecipe del suo mondo. Di quei mondi che spesso sarebbe meglio se restassero privati. Di quei mondi che ci si vergogna a invadere. Eppure siamo lì, siamo entrati.
In Quel Libro Che Credevo Perso, trovo invece un segnalibro, messo lì perché oggi, per caso, leggessi queste parole: “  le donne sanno che ciò che ottengono dagli uomini sono soltanto concessioni – una rinuncia volontaria alla loro forza, la momentanea assenza del loro autoritarismo – e che possono revocarle in qualsiasi momento”. Parole come macigni, il cui senso non ho mai dimenticato. “Rinuncia alla forza”, “rinuncia all’autoritarismo” vuol dire che la donna, anche quando non sembra più essere così. resta, nella parte più nascosta e negletta dell’uomo, percepita come una sua proprietà. Prima dei padri, poi dei mariti e poi dei figli maschi. Tutto questo la nostra cultura lo ha rimosso: ha cancellato questo tratto che ora consideriamo arretratezza, e leggiamo le notizie che ci arrivano da lontano come se si trattasse di mondi ormai estinti i cui echi suscitano l’indignazione del momento, di qualche ora.
Chi sa come reagiremo se ci dicessero che le donne, anche quando non subiscono violenza, anche quelle più vivine a noi, si trovano a vivere in condizioni spesso di inadeguatezza psicologica verso un mondo le vorrebbe perfette in ogni ruolo. In quello di madre, di compagnia e poi di lavoratrice. Che loro sentono di dover eccellere per poter dimostrare che se sono amate, se occupano ruoli apicali e di responsabilità è perché lo meritano. Perché lo meritano davvero e non perché gli è concesso. Esiste su questo uno studio, “The confidence code”, pubblicato da due giornaliste americane Claire Shipman e Katty Kay, che sta facendo molto discutere.
Reagiremmo Forse pensando che non c’è alcuna connessione, né alcuna vicinanza, tra le donne che frequentiamo e le donne che subiscono violenza. Reagiremmo forse pensando che la violenza sulle donne è da noi ormai stigmatizzata in ogni sua forma. E avremmo forse ragione, anche se non riesco a non pensare alle due ragazze appena adolescenti che in India, precisamente nell’Uttar Pradesh, sono state avvicinate da un gruppo di uomini, violentate e impiccate. Non riesco a non pensare che quelle due ragazze Dalit, appartenenti quindi alla classe sociale più bassa, non siano solo vittime di uomini violenti, ma sono soprattutto vittime di uomini che credono di poter esercitare su di loro “autorità” e “forza”. Hanno trovato i loro corpi impiccati ad un albero di mango. Un anonimo fotografo le ha ritratte. Così i loro corpi hanno fatto il giro del mondo, a volte hanno coperto i visi, altre volte li hanno lasciati visibili. Una foto che, come qualcuno ha detto, ricorda i linciaggi e le impiccagioni del Ku Klux Klan negli stati del sud in Usa.
A volte mi domando quale sia la differenza tra tutto questo e le immagini delle ragazze e delle donne un tempo sorridenti che affollano i nostri quotidiani, prese dai loro profili face book. Quei sorrisi sono ovunque fino quasi a diventare persone di famiglia. Mi domando se la nostra voglia di conoscere i meccanismi di quelle morti, oltre a una sana voglia di verità e giustizia, non risponda anche alla rimozione di ciò che la nostra società è stata. Se tutto questo non ci porti indietro mostrando la parte peggiore di noi, quella che si vorrebbe cancellare ma che la cronaca fa entrare di prepotenza nelle stanze intime di tutti.
Roberto Saviano – L’Espresso – 3 luglio 2014 –

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