Quel pasticciaccio del
3 per cento
Le tante promesse di
Matteo Renzi si scontrano con l’obbligo di rispettare limiti di spesa. Si
potrebbe ricorrere a dismissioni e tagli. Ma ogni volta che vengono annunciati
c’è sempre qualcuno che si oppone
L’economia, si sa, si nutre di matematica. Però per spiegare
perché sia dannoso spendere più di quello che si guadagna (si produce), non s’è
bisogno nemmeno di un minimo di aritmetica essenziale: basta il buon senso.
Prendiamo la storia di questo dannato tre per cento che Matteo Renzi definisce
anacronistico, che fa litigare Italia e Germania e che fissa un tetto al
disavanzo pubblico: non più del tre per cento, appunto, del prodotto interno
lordo, il Pil.
Ora, l’Italia produce ogni anno ricchezza (il Pil) per 1500
miliardi di euro; ma sconta un debito colossale, 2000 miliardi o giù di lì. Cui
si aggiungono ovviamente gli interessi da pagare, 50 miliardi l’anno
immaginando un tasso del 2,5. Quindi più si contengono in qualche modo deficit
e debito e meglio è. Se quest’anno, per esempio, il debito complessivo dovesse
aumentare di altri 45 miliardi – per via di un ulteriore disavanzo di tre punti
di Pil – sarebbe necessario per la ricchezza nazionale, come la busta paga di
chi s’indebita, crescesse più o meno della stessa percentuale. Altrimenti
sarebbe impossibile fermare la spirale e tenere in ordine i rapporti
deficit-pil e debito-pil così come vogliono gli accordi firmati a Bruxelles
(fiscal compact) cui siamo stati chiamati proprio per impedire che quel debito
aumenti a dismisura.
E Però Anche Gli
Osservatori più
ottimisti dicono che l’Italia crescerà a fatica, si e no dell’1 per cento, e
dunque debito si aggiungerà a debito. Si potrebbero allora tagliare le spese,
eliminare sprechi, proprio come si fa in una famiglia nei guai; e però non c’è
Bondi o Cottarelli che tenga, e a ogni proposta di abbattere la scure qui o là,
ecco calde resistenze, mandarini indignati, corporazioni in lacrime. Allora si
potrebbe vendere un po’ di patrimonio pubblico, e ogni volta infatti annunciano
piani faraonici di dismissione, a cominciare dalle sempiterne caserme; ma da
quando ne parò Monti sono passati due anni e mezzo e non se n’è fatto nulla,
nonostante e Letta e Renzi stancamente ripetuto il ritornello. Forse si potrebbe
essere più tosti contro l’evasione fiscale, ma queste due parole – ci avete
fatto caso? – nel vocabolario di Renzi non compaiono mai. Altri ancora spiegano
che c’è talmente tanta liquidità in giro che riusciremo sempre a piazzare i
titoli del debito; e in parte è vero, ma chi compra non vuole solo guadagnare,
vuole anche essere sicuro dell’investimento, e un Paese che passa in un mese da
200 a 500 di spread e viceversa non è il massimo della stabilità.
La Questione E’ Antica, ce la trasciniamo da almeno
vent’anni, ma diventerà stringente e ineludibile dall’anno prossimo visto che
non solo ci siamo impegnati al pareggio di bilancio, ma addirittura lo abbiamo
scritto nella Costituzione. Insomma, dal 2015 dovremo via via ridurre il debito
fino a portarlo al 60 per cento del pil (oggi è oltre il 130), e più o meno
azzerare il disavanzo. Traduzione: una quarantina di miliardi da tagliare ogni
anno per il primo obiettivo e quasi altrettanti per il secondo. Ottanta
miliardi. Aiuto.
Per carità, le deroghe sono sempre possibili, specie per un
Paese come il nostro sempre vissuto di eccezioni, ma almeno bisogna dimostrare
di aver voglia di fare e di cambiare. Eppure quella riforma della Costituzione
è stata votata dai due terzi del Parlamento (per evitare il referendum dei
cittadini), e cioè con il sì di Pd, Pdl e pure della Lega; gli stessi partiti
che però non riescono a comportarsi di conseguenza, anzi. Perché tra gli
impegni e la realtà c’è di mezzo la politica. Come Angela Merkel sa bene. Ora, Renzi è troppo intelligente e
attento per non sapere che cosa lo aspetti l’anno prossimo e che cosa
significhi annunciare bonus di dieci miliardi per dieci milioni (di italiani),
investimenti per la scuola, taglio dell’Irap e rimborso dei debiti della
pubblica amministrazione senza indicare altrettanti tagli certi. Allora, perché
lo fa? Probabilmente pesa su di lui la sindrome dei cento giorni (o la va o la
spacca), e forse ancora di più la vigilia di una delicata campagna elettorale
nella quale già cantano a squarciagola le sirene del populismo, delle lamentele
contro l’Europa, della battaglia contro la moneta unica. Va bene, d’accordo, si
facciano pure promesse e poi si voti, ma
subito dopo, per piacere, si torni alla realtà.
Twitter@bmanfellotto – Bruno Manfellotto – L’Espresso – 3
aprile 2014
Nessun commento:
Posta un commento