Scriveva Pomponazzi nel
De fato (1520): “ E se qualcuno
chiedesse: che giuoco è questo? Conviene rispondere che è il giuoco di Dio”
Studio antropologia e fino a qualche anno fa guardavo ai
lettori di oroscopi come a dei superstiziosi, insicuri, visionari e agli
astrologi come a degli imbonitori di folle. Ma negli ultimi anni mi sono resa
conto che le persone appartenenti a uno stesso segno hanno effettivamente
caratteristiche comuni, e relazioni legate al cielo sotto cui sono nati. Se il
nostro corpo è fatto in gran percentuale di acqua, perché le fasi lunari non
dovrebbero incidere su di noi come le maree? Se un bacio mette in moto una
serie di reazioni chimiche nel nostro corpo, aumentando le endorfine, il
piacere e il benessere fisico, perché il passaggio di un pianeta non dovrebbe
muovere dentro di noi quei flussi organici?
Certo, non credo che se ho Venere nel segno troverò l’amore,
ma credo che nell’eventuale incontro il mio animo sarà più disponibile e
incline all’amore. Non è un paradosso, che siamo disposti a credere in un Dio
invisibile e benevolo e poi non crediamo che le stelle, fatte anch’esse di
reazioni chimiche come noi, abbiano influenza sui nostri corpi? Il modo di
reagire a tale influenza varia in base al nostro vissuto al nostro carattere,
ma non si può negare che la natura, gli astri, il mare e il clima abbiano
qualcosa a che fare con noi. L’astrologia era un sapere declassato nei secoli
della scienza sperimentale, e ancor oggi relegato a un universo di ignoranza e
superstizione. Non sopporto che i cosiddetti intellettuali debbano sempre
negare la nostra appartenenza al mondo animale e alla natura in virtù di una
razionalità che ci ha paralizzati. L’astrologia, così come molte tradizioni
popolari, raccontano di noi molto più di quanto la nostra mente illuminata
possa comprendere.
Irene Forcillo
Guardiamo le stelle per sapere qualcosa del nostro futuro, e
anche coloro che non credono all’astrologia non sono esenti da questo
desiderio. A differenza del passato e del presente, infatti, il futuro è
imprevedibile, e questa imprevedibilità rimanda alla precarietà della nostra
esistenza sballotta tra eventi che sfuggono al nostro controllo, attraversata
da desideri che non di rado oltrepassano la nostra capacità di realizzarli,
abbattuta da dolori da cui non si sa come uscire. E allora cerchiamo nelle
stelle un minimo di previsione che ci assicuri, per ridurre lo spazio
dell’imprevedibile in cui si radica l’angoscia più primordiale dell’uomo.
Per ridurre questa angoscia l’umanità si è mossa alla ricerca
del principio di causalità, perché quando leggo un fenomeno come effetto di una
causa, l’apparire del fenomeno non mi sorprende perché previsto. Il bisogno di
previsione è alla base anche della ricerca scientifica che a sentire Nietzsche
è nata dal “terrore dell’ignoto”, a cui la scienza pone rimedio cercando le
regole che determinano l’accadere degli eventi. Questa è la ragione, scrive
ancora Nietzsche, per cui: “la scienza vuole la regola, perché essa toglie al
mondo il suo aspetto pauroso”. La scienza, ovviamente, non crede agli oroscopi,
anche se la ragione di fondo per cui è nata è la stessa che, dai tempi più
remoti, ha indotto gli uomini a scrutare il cielo.
Possiamo allora dire che scienza e astrologia rispondono
entrambe al bisogno di sconfiggere l’ignoto attraverso procedure di previsione,
rigorosamente razionali nel caso della scienza e irrazionali nel caso dell’astrologia.
Anche se noi sappiamo, e Kant ce lo ricorda, che la ragione è un’isola
piccolissima nell’oceano dell’irrazionale che, proprio perché si sottrae ad
ogni regola, inquieta. Nella mutevolezza delle vicende umane l’astrologia cerca
il destino “ciò che sta” e nel firmamento “ciò che sta fermo”. Allo stesso modo
la scienza riduce lo spazio dell’imprevedibile leggendo il mondo nella forma
del più rigoroso determinismo.
Ma tra il destino scritto nelle stelle e il determinismo
perseguito dalla scienza che spazio resta alla nostra libertà? A meno che la
libertà non sia l’illusione a cui gli uomini si sono consegnati per marcare la
loro differenza dagli animali e rivendicare in questo modo la loro superiorità.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 23 marzo 2014
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