C’è un filo che lega
quanto successo a Parigi con l’avanzata di Marine Le Pen e la riforma del
Senato promessa da Renzi: o la politica cambia o muore sommersa dai populismi.
Con giudizio, ma
bisogna agire.
A lungo annunciata, pur largamente prevedibile, la valanga
lepenista in Francia (con l’eccezione di Parigi) inquieta e preoccupa chiunque
abbia a cuore il futuro dell’Europa. Perché prefigura ciò che potrebbe
succedere nelle elezioni per il Parlamento di Bruxelles, perché non riguarda
esclusivamente la Francia ed è figlia non solo della grande delusione Hollande,
ma di una malattia più profonda che da tempo ha colpito tutto il Vecchio
Continente. Ecco perché il trionfo del Front National ci offre più di una
lezione.
La prima è che la classica divisione tra destra e sinistra
non regge più. Accanto alle forze tradizionali, figlie delle grandi scuole di
pensiero del secolo passato, nascono movimenti inediti e trasversali
difficilmente collocabili secondo schemi consueti. Inoltre, le ricette finora
sperimentate appaiono ormai rituali, insufficienti a sanare contraddizioni nate
da problemi sovranazionali – globalizzazione, immigrazione, crisi economica –
ma che producono drammatiche conseguenze interne: i tre milioni e mezzo di
disoccupati in Italia misurati dall’Istat sono una realtà da incubo.
Seconda Lezione Quando la crisi incalza e i
cittadini si sentono stritolati dalle tasse, vessati dalle banche, abbandonati
dalla politica, la loro rabbia finisce facile preda di populismi,
demagogie e sciovinismi che condizionano
gruppi e movimenti o addirittura ne generano
di nuovi, sia a destra che a sinistra. E’ la tendenza istintiva a
chiudersi in casa, a temere l’invasore, a demonizzare la moneta unica, come se
alzare un ponte levatoio bastasse a contenere l’onda. Dentro le mura del
castello, Le Pen non è sola : (“l’Espresso” n.11): in Ungheria impazza
l’estrema destra di Jobbik; in Grecia quella di Alba dorata; in Olanda il
partito per la libertà di Geert Wilders; in Austria la formazione guidata da
Heinz-Christian Strache. In Germania si agitano gli euroscettici del professor
Bernd Lucke; in Italia sono contro questa Europa sia la Lega e Berlusconi che
il movimento di Beppe Grillo e la lista di sinistra di Alexis Tsipras. Messi insieme,
formano una massa d’urto notevoleL’unica risposta possibile all’ondata sarebbe
proprio cancellare vizi, ritardi e impotenze che alimentano quelle stesse
esasperazioni .
Prima di tutto la disoccupazione, appunto; e poi la politica
come privilegio; l’immobilismo dei governi. Per questo, da quando ha mandato a
casa Letta, Matteo Renzi ripete che è necessario fare le riforme, che se non
vince la scommessa molla e buonanotte, e con lui la politica tutta. Così ha
preso a correre, a cambiare passo – o almeno dà l’impressione di volerlo fare –
dopo aver annunciato un fitto calendario di riforme, ferramente scadenzato come
tappe di una via crucis.
La Più Impegnativa, l’operazione simbolo della stagione
Renzi, è certo la trasformazione del Senato nella camera dei poteri emergenti,
i sindaci, cioè la fine di quel bicameralismo perfetto che da almeno trent’anni
viene individuato come l’origine dell’immobilismo e della difficile
governabilità. Ma anche come uno dei pilastri sui quali è stato costruito il
sistema Italia. Inevitabili dunque le reazioni di chi frena, di chi teme che
picconare l’impalcatura esistente possa far cadere l’intero palazzo. In fondo,
è da qui che si sono mossi quanti difendono la Costituzione più bella del mondo
temendo che venga snaturata, (…).
Non è facile il cammino per Renzi. Anche il suo partito –
l’unico ancora strutturato e con forti valori di riferimento – non lo segue
compatto nella corsa, come dimostra la spericolata contestazione firmata dal
presidente del Senato Pietro Grasso. E
questo contribuisce a seminare ulteriore confusione. Il vero rischio, a questo
punto, è che nello scontro tra il riformismo estremo del rottamatore fattosi
premier e la continuità dei rivoluzionari fattisi conservatori vinca il nulla
di fatto. Con grande gioia di Grillo, che non a caso si è affrettato ad
abbracciare Rodotà e Zagrebelsky che solo pochi mesi fa aveva insultato. O, al
contrario, che dalla fretta e dallo scontro frontale nascano riforme piccine,
monche, parziali. E però questa non è solo una campagna elettorale, qua si sta
costruendo un edificio che dovrebbe durare per molte generazioni ancora. Chissà
se per una volta non valga la pena scommettere.
Però non facciamolo al buio. E prima pensiamoci bene.
Twitter@bmanfellotto – Bruno Manfellotto – L’Espresso –
10 aprile 2014
Nessun commento:
Posta un commento