Nuovi farmaci riescono
a guarire fino all’80 per cento dei malati di epatite C. Senza gli effetti
collaterali della vecchia terapia
L’epatite C è la bestia nera. Solo in Italia oltre due
milioni di persone si sono infettate col virus e un milione si è ammalata.
Molte, circa 15 mila l’anno condannate a morte. E chi convive col virus lo fa a
costo di una terapia terribile, pesante e spesso invalidante. Neanche a dire
che si punta sul vaccino, poi: non si riesce a sviluppare, perché il virus muta
troppo velocemente. E allora restano solo i farmaci. Ma una buona notizia c’è:
una nuova generazione di medicine riesce a colpire il Killer fino annichilirlo.
I tecnici lo chiamano “eradicazione del virus” e di fatto significa guarigione.
Quel che conforta, poi, è che riescono, molto spesso, a farlo senza interferone
e ribavirina che vengono utilizzati in associazione con l’antivirale. Questo ha
galvanizzato la platea di uno dei Congressi più importanti al mondo, il Croi
(Conference on Retrovirus and Opportunistis Infections) tenuto nelle settimane
scorse a Boston.
Perché la sfida oggi è proprio quella di liberare i pazienti
dal virus senza il peso dell’interferone e della ribavirina, passo che non
sembra poi così lontano. Proprio a Boston, infatti, sono stati presentati
diversi studi clinici già in fase avanzata con assortimenti vari di farmaci che
permettono di non ricorrere all’interferone, alla ribavirina, o a uno dei due.
E i numeri sono da libro dei sogni: oltre il 90 per cento dei malati si libera
dell’epatite C. Il fatto vero e positivo è dunque che i nuovi antivirali,
assortiti in vario modo, riescono – soprattutto in persone non trattate con
altre terapie in precedenza – a causare quella che viene considerata a tutti
gli effetti l’eradicazione del virus, ossia a ridurre il virus, per periodo di
tempo non inferiori all’anno, a un numero di copie così basso che è impossibile
rilevarlo. La tossicità è sempre bassa, la tollerabilità alta. Insomma, quella
dell’epatite C potrebbe essere la storia di successo della ricerca biomedica, e
di un successo molto rapido. All’epoca delle prime segnalazioni, sul finire
degli anni Settanta, la malattia non aveva neppure un nome: veniva chiamata
non-A e non-B. Solo nel1989 si è capito che era davvero un’epatite virale, ma
che era causata da un retrovirus analogo, per tenacia e ineffabilità, a quello
dell’Hiv, e diverso da quello che causa l’epatite B, che tende a cronicizzare.
E si è capito che il Killer si trasmette attraverso il sangue. Da lì allo sviluppo
di un test diagnostico il passo è stato breve, come ridotto è stato il tempo
necessario a individuare le categorie a rischio, cui consigliare di eseguirlo:
chiunque facesse o avesse fatto uso di droghe per via iniettiva; chiunque
avesse ricevuto organi o sangue prima del 1992; i figli di madri infette;
coloro che si sottoponevano a dialisi da molti anni; coloro che avevano il
virus Hiv o qualunque manifestazione di malattia epatica.
Ma queste indicazioni non sono state probabilmente diffuse
con sufficiente convinzione, e il numero di persone malate è continuato ad
aumentare fino a quando, pochi mesi fa, i Centers for Disease Control and
Prevention americani, hanno tolto ogni limite e consigliato l’esame a ogni
persona nata tra il 1945 e il 1965. Insomma a tutti i baby boeme, perché i
trequarti delle infezioni colpiscono proprio uno di loro.
Fino a qualche anno fa, e a partire dal 1998, le terapie
erano basate, appunto, su interferone, ribavarina e farmaci inibitori della
proteasi. Uno schema che riusciva a salvare circa il 50 per cento dei malati, e
comunque con effetti collaterali non trascurabili, al punto che spesso i
pazienti abbandonavano le cure. Anche perché l’epatite C ha pochi sintomi, in
tutte le sue fasi a parte quelle finali. Poi, negli ultimi anni, la svolta: i
primi farmaci orali ed efficaci, sempre insieme a interferone e ribavirina, in
percentuali molto più alte di pazienti, il primo dei quali è stato di
boceprevir (in Italia da poco più di un anno) che, come il suo simile
telaprevir funziona solo contro un tipo di epatite C. Quindi altri,
costosissimi, come solosbuvir e simeprevir, grandi protagonisti della
conferenza di Boston e non ancora disponibili nel nostro paese, che hanno
dimostrato la loro efficacia in oltre l’80 per cento dei malati affetti da
qualunque tipo di epatite C. mentre altri nuovi farmaci come dalatasvir e
asuprenavir, che hanno appena ricevuto l’approvazione ultrarapida da parte
dell’ente regolatorio americano, la Fda.
Il vero problema però sono i costi stellari di queste terapie.
La cura dell’epatite. C’è insomma ormai una realtà. Sempreché i sistemi
sanitari o i singoli malati se la possano permettere
Agnese Codignola – L’Espresso – 10 aprile 2014 –
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