Ho Letto La sua pagina sul rischio che corrono gli attori nell’interpretare
personaggi che, oltre il copione, abitano anche l’inconscio dell’attore che, se
ha familiarità con questi personaggi, risulta autentico, altrimenti, quando “il
controllo dell’Io salta, succede l’inferno, ossia la follia. (…). Sono i nostri
demoni che prendono il sopravvento. Sono gli abitanti dell’inconscio che
prendono vita”. Se la psicologia fosse come la scienza, non crede che potrebbe
fare luce su questi personaggi in modo che, una volta conosciuti, non se ne
debba più essere preda inconsapevole, rischiando inferno e follia? Se la
scienza, a fronte del mistero della natura, ci dà conoscenze che non ci fanno
più correre, come i “primitivi”, a rifugiarci nella caverna, terrorizzati da
tuoni e fulmini, la psicologia che si cimenta con il mistero dell’essere umano
mette ancora nel sacco dell’inconscio tutto quel che non sa e che dovrebbe, più
correttamente, nominare inconosciuto, piuttosto che inconscio
inesplorabile. Mario Tancredi mario.tancredi@fastwebnet.it
Conoscere La Natura è molto più facile che conoscere se
stessi. Perché la natura è fuori di noi e possiamo esaminarla come un oggetto.
Noi invece non possiamo guardarci dall’esterno come si guardano gli oggetti se
non negando la nostra soggettività. La distinzione tra scienze della natura e
scienze dello spirito introdotta da Wilhelm Dilthey (1833-1911) segna, oltre,
che la differenza tra i due tipi di sapere, anche il nostro limite in ordine
alla conoscenza di sé. Quanto all’inconscio, non è un cestino dei rifiuti e
neppure una discarica. Non è un sostantivo che designa una cosa, ma un
aggettivo che denomina tutto ciò a cui la nostra coscienza non presta alcuna
attenzione. E ogni psicologia del profondo attribuisce a questa
inconsapevolezza le molte cose che la coscienza non prende in debita
considerazione. Eugen Bleuler, e dopo di lui il suo allievo Carl Gustav Jung,
attribuiscono all’inconscio tutte le possibili forme d’esistenza che non si
sono attuate e tutte le potenziali espressioni della vita – da quella infantile
a quella senile, da quella femminile per i maschi a quella maschile per le
donne, dall’ombra della nostra personalità alla creatività dell’anima – in cui
talvolta ci riconosciamo ma che il più delle volte trascuriamo. (..). Siccome
noi non ci rassegniamo a essere questo e nient’altro, viviamo a partire dal
nostro Io che inventa progetti, ideazioni, aspirazioni, sogni fino all’ultimo
giorno quando, inutili per l’economia della specie, questa, che ha bisogno del
ricambio degli individui, nella sua crudeltà innocente ci destina alla morte.
(..). Se non prestiamo attenzione non tanto a quello che possiamo fare noi con
la tecnica, quanto a che cosa la tecnica può fare di noi, la razionalità
tecnica finisce con l’abitarci inconsciamente al punto che, anche nei rapporti
d’amore, dopo che si è detto “ti amo”, si trova superflua e inutile ogni altra
espressione. Siccome l’uomo non è solo razionale ma anche e soprattutto
irrazionale, teniamoci cara la nostra irrazionalità inconscia se vogliamo
evitare di diventare, a nostra insaputa, come le macchine. In questo caso la
sorte che ci attenderebbe non sarebbe dissimile da quella riferita da Gunther
Anders a proposito di “un re che non vedeva di buon occhio che suo figlio,
abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi
un giudizio sul mondo: perciò gli regalò una carrozza e cavalli: “Ora non hai
più bisogno di andare a piedi”, furono le sue parole. “Ora non ti è più
consentito di farlo”, era il loro significato. “Ora non puoi più farlo”, fu il
loro effetto”. Introiettando la razionalità strumentale propria della tecnica,
vogliamo diventare come quelli che non sono più in grado di dire una parola di
più dopo che hanno detto “ti amo”, giudicando ogni altra espressione superflua,
sovrabbondante e non funzionale, come prevede il regime della razionalità
tecnica?
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di La Repubblica – 22 Aprile 2017 -
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