Da Bambina Avevo una sedia soltanto mia, regalo di mio
nonno. Con il suo schienale dritto e i suoi braccioli, era bellissima. Tuttavia
ciò che la rendeva speciale non era la sua seppure pregiata fattura ma la sua
dimensione mignon, adatto alla mia all’età di quattro anni. La mia seggiola e
io ci spostavamo da una camera all’altra seguendo il fulcro dell’azione
domestica, come il pubblico di uno spettacolo itinerante. Uno dei nostri luoghi
preferiti era la stanza da bagno la mattina presto. Era lì che mio papà, un
asciugamano attorno alla vita e il rasoio in mano, si radeva la barba. E
cantava, non sempre intonato, le canzoni di Giorgio
Gaber: la mia preferita era La libertà, che “non è star sopra un albero e non
è nemmeno il volo di un moscone né uno spazio libero”. Ad accendere il mio
entusiasmo non era quel concetto nobile e impegnato della “partecipazione”, ma
l’immagine di donne e uomini appollaiati sui rami come colombi, illusi e
perdenti in quella gara all’emancipazione, come i mosconi e come gli spazi
vuoti. E più ascoltavo e ripetevo quelle strofe più mi convincevo che ero
libera perché ero lì seduta sulla mia seggiola a contemplare l’unico uomo della
mia vita, nel punto esatto dell’universo dove desideravo essere. Dev’essere
stato in una di quelle mattine che gli chiesi di sposarmi. Quella seggiolina di
vimini che sta in un angolo a casa di mia mamma, oggi è troppo piccola persino
per mio figlio minore. Le canzoni si Gaber, pure amandole ancora moltissimo, le
canto sempre più di rado. Sarà che entrambe, loro ed io, abbiamo perso i nostri
papà. Eppure alla libertà penso ancora spesso, nella sua accezione più alta e
profonda e in quella più quotidiana e domestica. E talvolta mi sento sopra un
albero, illusa di avere qualcosa di cui ho perso contezza. Come tutti i beni di
libertà diventa preziosa quando scarseggia. Ho smesso di sentirmi padrona del
mio tempo e del mio arbitrio quando ho cominciato a lavorare. Appaltare ad
altri otto ore della mia giornata mi pareva un’atroce concessione. E se quella
perdita fu mitigata a uno stipendio fisso e regolare che mi regalava un brivido
mensile di presunta ricchezza, ebbi piena consapevolezza della mia definitiva
abdicazione dal mondo dei liberi quando diventai madre. Nell’open space in cui
lavoravo allora eravamo molte donne, quasi tutte coetanee e in gran parte
inghiottite dallo stesso tunnel di affanni, incombenze, figli, accudimento,
fatica e claustrofobia. Le mie rinunce erano anche le loro e la condivisione di
un medesimo destino da criceti in gabbia lo rendeva tollerabile. Ci stavamo
sacrificando sull’altare della conciliazione, causa imprescindibile e strada
maestra per la libertà delle nuove generazioni di donne. Da qualche anno invece
lavoro in un ambiente ben più eterogeneo e variegato, in cui sono l’unica
madre, per giunta di te figli. I miei colleghi spesso escono a cena, vanno ai
concerti, celebrano il rito dell’aperitivo, alcuni conducono esistenze
dissolute e gaudenti, hanno una gestione del tempo flessibile e anarchica, sono
padroni del loro tempo e della loro agenda. Non so se siano più felici ma di
certo sono liberi. E io li guardo come i bambini guardano la vetrina della
pasticceria o del negozio di giocattoli, con languore e desiderio. La libertà
non è “il volo di un moscone” ma forse è stare con gli amici quando e come si
vuole, partire per un viaggio, scegliere. O magari aveva ragione quella tizia
in miniatura seduta su quella micro-seggiola di vimini: libertà è essere nel
posto esatto in cui desideri. E oggi, come allora, mi scopro libera-
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -29
aprile 2017 -
Nessun commento:
Posta un commento