Prima si introduce una nuova
tecnologia, solo più tardi se ne comprendono appieno le conseguenze. Sta
succedendo anche con le neurotecnologie. Un esempio di qualche anno fa: in
India una donna è stata condannata all’ergastolo sulla base di uno scanning
cerebrale; seduta in aula, piena di elettrodi sul cranio, ha ascoltato il
resoconto dell’omicidio di cui era stata accusata mentre le immagini del suo
cervello venivano analizzate da un software. Secondo gli esperti, le immagini
mostravano attività neurali riconducibili alla rievocazione di quei fatti. Anto
è bastato per la condanna. L’uso delle tecnologie in grado di monitorare (o
modificare) l’attività cerebrale nel frattempo è arrivato nei laboratori delle
multinazionali, degli eserciti, dell’intelligence, ma non nelle case. In un
articolo appena uscito su Life Sciences, Society and Policy un giurista
dell’Università di Zurigo, Roberto Adorno, e un ricercatore di neuroetica
all’Università di Basilea, Marcello Ienca, si augurano che si metta presto mano
a un aggiornamento dei diritti umani. Si concentrano su quattro. Il primo è la
libertà cognitiva, visto che ormai il pensiero può essere letto (attraverso il neuroimaging, che consente di indagare
su ricordi, stati mentali, persino preferenze politiche) e anche manipolato
grazie si dispositivi di stimolazione cerebrale, che tramite impulsi
elettromagnetici, riescono a modificare l’attività del cervello. Poi c’è il
diritto alla continuità psicologica: “Molti eserciti usano la stimolazione
magnetica cerebrale per aumentare la resistenza dei soldati e per attenuare
memorie traumatiche, il che può condurre a veri cambiamenti di personalità, con
ripercussioni profonde sulla psiche” dice Ienca. “Versioni commerciali di
questi dispositivi si possono ormai acquistare su internet anche per cento
dollari, e sempre più persone li usano per potenziare le proprie prestazioni
cerebrali. Ma nessun diritto, oggi, tutela espressamente la sfera mentale da
eventuali abusi, o danni”. C’è poi il caso di multinazionali come Google, Disney,
Cbs, che ricorrono al neuroimaging per studiare le preferenze dei consumatori,
con studi che non sono sottoposti alle stesse linee guida della ricerca
clinica. “A che condizioni, per esempio, si possono estrarre informazioni dal
cervello? Con chi si possono condividere? Impiegati, compagnie assicurative,
Stato? Ecco, i presupposti per un nuovo diritto alla privacy mentale”. Infine,
gli analisti prevedono che entro una ventina d’anni il controllo cerebrale
diretto, tramite dispositivi indossabili o impiantati nel cervello, affiancherà
la tastiera nell’interazione tra uomo e computer. E questi impianti potrebbero
essere hackerati. “In questo caso, e ci sono già studi a riguardo, si configura
il pericolo del furto di informazioni direttamente dal cervello, ma anche il
rischio di danni cerebrali”. Di qui, la necessità di garantire il quarto
diritto, quello all’integrità mentale.
Giulia Villoresi – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica – 19
maggio 2017 -
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