Lo Vedo Spesso. Ha al massimo vent’anni, il viso da
ragazzino e l’incedere lieve di chi ancora non ha scelto la sua strada. Con
quell’andatura molleggiata, acerba e spavalda, quell’aria persa nell’orizzonte
urbano e quelle enormi cuffie rosse a coprirgli orecchie e parte della testa, è
evidente che non ha un obiettivo. O meglio, il suo fine sta proprio lì, nel
passeggiare svagato e senza meta. E quale super potere è più invidiabile del
trasformare il mezzo in scopo? Lui è il dog sitter dei miei vicini di casa.
Ignoro il suo nome ma un “Matteo” o un “Giacomo” gli calzerebbe a pennello. Non
conosco i suoi orari ma coincidono con i miei. Quando ci incrociamo ci
salutiamo distratti. Dubito mi riconosca. Ai suoi occhi sono parte di un
indistinto e irrilevante panorama umano. Lo capisco dallo sguardo un po'
liquido che tradisce il suo abitare altri mondi. Ma a me basta sapere che lui
c’è. Mi basta inciampare ogni tanto nel guinzaglio teso tra lui e il labrador
nero che lo accompagna placido, contagiato dalla leggerezza spensierata di
quelle gambe lunghe e dinoccolate. Perché a me la visione di quel ragazzino
senza un nome mette allegria. Non mi interessa saper chi sia, così studi, cosa
sogni. Anche il suono della sua voce non ha alcuna importanza. Lui è lì,
puntuale e incurante. Non lo sa, e se lo sapesse, probabilmente terrorizzato,
mi aizzerebbe contro il cane ma lui è uno dei tasselli che tengono insieme il
mio mondo. Ne ho preso coscienza di recente ed è stata una fondamentale
epifania: esistono, nella quotidianità di ognuno di noi, persone estranee che
tuttavia accompagnano i nostri passi, ci danno la misura dello spazio e del
tempo, ci regalano la sicurezza gratuita e generosa della loro incurante ma
costante presenza. Senza nulla togliere agli affetti, agli amici, all’intimità dei
rapporti costruiti nel tempo sulla sintonia, sull’empatia, su un legame di
sangue, vorrei però qui soffermarmi sugli incontri casuali e apparentemente
irrilevanti che si trasformano in pietre miliari sul nostro cammino, senza
alcun merito se non una unilaterale affinità. Quando avevo un lavoro come si
deve, con un contratto a tempo indeterminato e degli orari da rispettare, sotto
il mio ufficio c’era un bar in cui prendevo ogni giorno un caffè macchiato. Il
proprietario e animatore di quel locale si chiamava Gigi, acido, reazionario e
incattivito dalla vita e dalle sveglie all’alba, un uomo che mai avrei scelto
come amico. Eppure a quei tempi Gigi per me era essenziale: una colonna, una
parentesi vacanziera, a volte persino il pensiero della mattina. Io per lui ero
una delle tante clienti, lui per me era un piccolo sole al costo di un euro. La
mia vita è costellata di inconsapevoli benefattori che vorrei ringraziare, ma
non ringrazio per timore di essere presa per pazza. Vorrei dire grazie al
signore che vende la pasta fresca di fronte a casa di mia madre, perché il suo
negozio ha il profumo buono della mia infanzia. Al papà che incontro sempre al
semaforo la mattina mentre accompagna a scuola il suo bambino, perché insieme
ridono e mi regalano uno spiraglio della loro privata tenerezza. Alla
giornalaia per il suo candore, alla coppia di pensionati che incontro in
palestra perché si divertono e sono gaudenti, alla mamma che aspetta sua figlia
fuori da scuola e ha il volto segnato per sempre da un’aggressione, per la sua
eleganza fiera e ipnotica, per il sorriso e per la sua resistenza. Incontrare
tutti loro mi ricorda chi sono, chi siamo, la comunità che dovremmo
rappresentare, l’importanza del prossimo, nella sua eccezione più laica e
militante possibile.
Claudia de Lillo . Opinioni – Donna di La Repubblica – 6
Maggio 2017 -
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