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lunedì 8 maggio 2017

Lo Sapevate Che: Maugham in vestaglia e le carte di Kavafis...



Someret Maugham ci accolse in vestaglia e pantofole. Sembrava un paludato maragià. Sui baveri della vestaglia c’erano dei ricami dorati, e le pantofole erano di seta. Era già primo pomeriggio ed ero stato invitato a pranzo con il mio amico fotografo. Camerieri in giacchetta bianca presidiavano una tavola imbandita al centro di una terrazza avvolta in rami spioventi da alberi folti che non parevano mediterranei. Eravamo ospiti più sorpresi che impacciati. Ero sulla Costa azzurra per lavoro ed era un’estate degli ultimi anni Cinquanta. Maugham era un ottuagenario vigoroso e quel giorno sorridente. Era l’esatto contrario del personaggio cupo, pessimista, ironico, perfino crudele, descritto egli innumerevoli articoli dedicatigli. Era uno dei romanzieri più letti nel mondo e anche dei più ricchi, sia per i libri venduti sia per i film che ne erano stati tratti. Era uno dei romanzieri più letti nel mondo e anche dei più ricchi, sia per i libri venduti sia per i film che ne erano stati tratti. Avevo con me in quel viaggio “La luna e sei soldi” e “Il filo del rasoio” di Maugham. Letture distensive, a tratti appassionanti. Non condividevo i giudizi negativi riversati dalla critica sul vecchio scrittore, che aveva conosciuto un grande successo nelle società anglosassoni fino agli anni Trenta. Successo poi giustamente rianimato. Quando seppi da un giornale di Nizza che Somerset Maugham era a Cap Ferrat nella sua Villa Mauresque, affondata in dodici acri di parco, gli telefonai e lui mi invitò subito a pranzo quando gli dissi che c’era con me un fotografo. Lo interessava più il fotografo del cronista. All’ingresso del parco, davanti al cancello chiuso, scalpitavano decine di giovani australiani nella vana speranza di incontrare il padrone di casa. Maugham non si fece attendere. Sulla terrazza della Villa Mauresque, dove abitava ormai da anni in permanenza, e dove animava un’intensa mondanità cosmopolita e miliardaria, il fotografo diventò l’ospite di riguardo. L’attenzione fu interamente dedicata a lui. Maugham si offrì all’obiettivo in tutte le pose. Cambiò persino abbigliamento. Abbandonò la vestaglia per una camicia e un pantalone. E rispose distratto alle mie domande. Poco interessato. Dovrei riguardare in archivio la cronaca che scrissi quel remoto giorno per rievocare i dettagli. Ricordo che nella sala da bagno della Villa Mauresque dominava uno splendido Monet. Anni dopo, quando ero corrispondente in Estremo Oriente e risiedevo a Singapore, frequentai i luoghi di Maugham, in particolare il Rafles Hotel dove era solito abitare, e le località della vicina Malesia familiari agli intellettuali inglesi. Ma ero molto più interessato agli itinerari di Joseph Conrad nel Sud Est asiatico. A spingermi a ricordare Maugham è stato il libro di Alvar Gonsales-Palacios (“Solo Ombre” edito da Archinto). L’autore dice di amare le indiscrezioni, le raffigurazioni non sempre esatte, gli aneddoti, persino quelli sono verosimili, quindi quelli più frutto della fantasia, o dell’intuito, che della ricerca o dell’esperienza. Il sottotitolo è del resto altrettanto sincero perché dice “silhouette storiche, letterarie e mondane”. E le silhouettes sono  le riproduzioni dei soli contorni Gonzales-Palacios racconta più di cinquanta personaggi, da Filippo II a Maria Carolina di Napoli, dal duca di Beaufort a Marcella Traballesi e Louise de Vilmorin. Sono in balla tanti secoli. Nel presentarla l’autore lascia capire che nell’antologia la sua erudizione storica è un po' canaglia. Il lettore non se ne accorge. Si diverte ma non soltanto. Oltre al rapido ritratto di Maugham, ci sono le appassionate pagine dedicate a Konstantinos Kavafis. L’opposto di Maugham, straricco e straprolifico. Amici egiziani vicini a Lawrence Durell quando scriveva il “Quartetto d’Alessandria” pensavano che lo scrittore si fosse ispirato a loro nel creare i personaggi. La mitomania dilagava, svaniva soltanto quando emergeva la figura di Konstantinos Kavafis. La cui ombra era alle spalle di Durrell come di tutti quelli che scoprivano il mito di Alessandria. Nessuno aveva conosciuto personalmente il poeta, morto nel 1933. Ma era come se la città fosse impregnata dei suoi versi, anche se, con l’eccezione del mare, non era mai stata quella immaginata da lui. Rifacendosi alle biografie Gonsalez-Palacios racconta di Kavafis “non scriveva mai le sue poesie di getto, dall’inizio alla fine, lavorava su molte nello stesso tempo, per anni. Per ognuna di loro preparava una serie di versioni, correggendo una dopo l’altra, in piccoli blocchi di carte sovrapposte…Il tempo non aveva molta importanza e ciò che era accaduto trent’anni prima finiva col confondersi con quanto aveva vissuto Antonio ad Alessandria o un generale a Bisanzio”. Kavafis come Proust.
Bernardo Valli – Dentro e Fuori – L’Espresso – 30 Aprile 2017 -

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