Someret Maugham ci accolse in vestaglia e pantofole.
Sembrava un paludato maragià. Sui baveri della vestaglia c’erano dei ricami
dorati, e le pantofole erano di seta. Era già primo pomeriggio ed ero stato invitato
a pranzo con il mio amico fotografo. Camerieri
in giacchetta bianca presidiavano una tavola imbandita al centro di una
terrazza avvolta in rami spioventi da alberi folti che non parevano
mediterranei. Eravamo ospiti più sorpresi che impacciati. Ero sulla Costa
azzurra per lavoro ed era un’estate degli ultimi anni Cinquanta. Maugham era un
ottuagenario vigoroso e quel giorno sorridente. Era l’esatto contrario del
personaggio cupo, pessimista, ironico, perfino crudele, descritto egli
innumerevoli articoli dedicatigli. Era uno dei romanzieri più letti nel mondo e
anche dei più ricchi, sia per i libri venduti sia per i film che ne erano stati
tratti. Era uno dei romanzieri più letti nel mondo e anche dei più ricchi, sia
per i libri venduti sia per i film che ne erano stati tratti. Avevo con me in
quel viaggio “La luna e sei soldi” e “Il filo del rasoio” di Maugham. Letture
distensive, a tratti appassionanti. Non condividevo i giudizi negativi
riversati dalla critica sul vecchio scrittore, che aveva conosciuto un grande
successo nelle società anglosassoni fino agli anni Trenta. Successo poi
giustamente rianimato. Quando seppi da un giornale di Nizza che Somerset
Maugham era a Cap Ferrat nella sua Villa Mauresque, affondata in dodici acri di
parco, gli telefonai e lui mi invitò subito a pranzo quando gli dissi che c’era
con me un fotografo. Lo interessava più il fotografo del cronista. All’ingresso
del parco, davanti al cancello chiuso, scalpitavano decine di giovani
australiani nella vana speranza di incontrare il padrone di casa. Maugham non
si fece attendere. Sulla terrazza della Villa Mauresque, dove abitava ormai da
anni in permanenza, e dove animava un’intensa mondanità cosmopolita e
miliardaria, il fotografo diventò l’ospite di riguardo. L’attenzione fu
interamente dedicata a lui. Maugham si offrì all’obiettivo in tutte le pose.
Cambiò persino abbigliamento. Abbandonò la vestaglia per una camicia e un
pantalone. E rispose distratto alle mie domande. Poco interessato. Dovrei
riguardare in archivio la cronaca che scrissi quel remoto giorno per rievocare
i dettagli. Ricordo che nella sala da bagno della Villa Mauresque dominava uno
splendido Monet. Anni dopo, quando ero corrispondente in Estremo Oriente e
risiedevo a Singapore, frequentai i luoghi di Maugham, in particolare il Rafles
Hotel dove era solito abitare, e le località della vicina Malesia familiari
agli intellettuali inglesi. Ma ero molto più interessato agli itinerari di
Joseph Conrad nel Sud Est asiatico. A spingermi a ricordare Maugham è stato il
libro di Alvar Gonsales-Palacios (“Solo Ombre” edito da Archinto). L’autore
dice di amare le indiscrezioni, le raffigurazioni non sempre esatte, gli
aneddoti, persino quelli sono verosimili, quindi quelli più frutto della
fantasia, o dell’intuito, che della ricerca o dell’esperienza. Il sottotitolo è
del resto altrettanto sincero perché dice “silhouette storiche, letterarie e
mondane”. E le silhouettes sono le
riproduzioni dei soli contorni Gonzales-Palacios racconta più di cinquanta
personaggi, da Filippo II a Maria Carolina di Napoli, dal duca di Beaufort a
Marcella Traballesi e Louise de Vilmorin. Sono in balla tanti secoli. Nel
presentarla l’autore lascia capire che nell’antologia la sua erudizione storica
è un po' canaglia. Il lettore non se ne accorge. Si diverte ma non soltanto.
Oltre al rapido ritratto di Maugham, ci sono le appassionate pagine dedicate a
Konstantinos Kavafis. L’opposto di Maugham, straricco e straprolifico. Amici egiziani
vicini a Lawrence Durell quando scriveva il “Quartetto d’Alessandria” pensavano
che lo scrittore si fosse ispirato a loro nel creare i personaggi. La mitomania
dilagava, svaniva soltanto quando emergeva la figura di Konstantinos Kavafis.
La cui ombra era alle spalle di Durrell come di tutti quelli che scoprivano il
mito di Alessandria. Nessuno aveva conosciuto personalmente il poeta, morto nel
1933. Ma era come se la città fosse impregnata dei suoi versi, anche se, con
l’eccezione del mare, non era mai stata quella immaginata da lui. Rifacendosi
alle biografie Gonsalez-Palacios racconta di Kavafis “non scriveva mai le sue
poesie di getto, dall’inizio alla fine, lavorava su molte nello stesso tempo,
per anni. Per ognuna di loro preparava una serie di versioni, correggendo una
dopo l’altra, in piccoli blocchi di carte sovrapposte…Il tempo non aveva molta
importanza e ciò che era accaduto trent’anni prima finiva col confondersi con
quanto aveva vissuto Antonio ad Alessandria o un generale a Bisanzio”. Kavafis
come Proust.
Bernardo Valli – Dentro e Fuori – L’Espresso – 30 Aprile 2017
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