Innamorarsi? Tanti ormoni
dell’euforia, pochi del benessere. Lasciarsi: un trauma che attiva le stesse
aree cerebrali del dolore fisico. Nel mezzo l’amore, un prodigio
dell’ossitocina, la molecola della tenerezza e della felicità. E su tutto
questo le manovre invisibili dell’evoluzione. Anche la neurobiologia dell’amore
ha un suo impalpabile romanticismo. Grazia Attili, docente di Psicologia
sociale alla Sapienza di Roma. Il
cervello in amore (Il Mulino, in libreria dal 18 maggio) svela i retroscena
biochimici e neurali del sentimento amoroso, procedendo, in un clima
romanzesco, dai primi sguardi alla separazione. Cosa distingue, a livello di
reti neurali e mediatori chimici, le diverse fasi della relazione? E perché, in
amore, a volte sembra che uomo e donna, in amore, a volte sembra che uomo e
donna non facciano parte della stessa specie? “Innanzitutto” spiega Attili
“uomo e donna hanno strutture cerebrali differenti. Il cervello degli uomini è
più grande, quello delle donne è più “connesso”, cioè i due emisferi comunicano
di più. L’emisfero sinistro, quello della logica e dell’intelligenza spaziale,
è più sviluppato negli uomini. Le donne invece hanno l’11 per cento in neuroni
in più nei centri del linguaggio e dell’ascolto: ai primordi della specie si
sono specializzate nella comunicazione, nell’intuizione e nell’emotività, per
riconoscere i bisogni dei piccoli, ma anche per individuare il partner giusto e
legarlo a sé, visto che i continui spostamenti per la caccia (e la possibilità
di procreare a ogni copula) rendevano il maschio più “irrequieto”. Queste
differenze si riflettono nel modo di amare. La donna innamorata, per esempio,
produce più ossitocina dell’uomo. Questo ormone agisce come collante nei legami
affettivi, (è lo sesso che interviene tra madre e figlio), ma per produrlo gli
uomini fisico, alle donne basta pensare alla persona amata. Significa che ci
leghiamo più facilmente, e che, dopo la separazione, restiamo legate più lungo.
Nell’uomo, tra l’altro, il consolidarsi dei legami affettivi è associato
soprattutto alla vasopressina: è l’ormone del possesso, della territorialità,
del predominio. Un po' come dire che la gelosia, più che la tenerezza, a
contribuire alla costanza maschile. Due modalità di attaccamento che però
concorrono alla stessa strategia, utile alla sopravvivenza della nostra specie:
creare un legame che duri nel tempo, almeno quello necessario a far giungere la
prole all’autosufficienza. Così, se la donna ha “imparato” ad amare perché non
poteva allevare i figli da sola, l’uomo lo ha fatto per paura di allevare figli
non suoi (cioè portatori di geni altrui). Differente, precisa la Attili, che si
inseriscono nel medesimo processo neurobiologico: “L’ipotalamo stabilisce se ci
piace l’odore di una persona ben prima della persona in sé (l’odore può dirci
se il suo sistema immunitario è più o meno diverso dal nostro: più è diverso,
più forte sarà la prole). La fase dell’innamoramento dura circa otto mesi,
vissuti sotto l’effetto costante della feniletilamina (molecola eccitante
simile all’anfetamina). Si è visto però che anche dopo vent’anni guardare il
partner attiva le stesse aree cerebrali che si accendono nella fase iniziale. È
anche per questo che ho scritto Il
cervello in amore: vorrei che le persone sapessero che quando finisce della
feniletilamina e subentra l’ossitocina a portare pace e interdipendenza emotiva
non è la fine: è l’inizio. Non siamo programmati per vivere costantemente
dopati, ma per stringere legami indissolubili.
Giulia Villoresi – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica – 12
Maggio 2017 -
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