Mi Chiama Donata ormai da molti anni e, fra le altre cose, sono meteoropatica,
appassionata di botanica, piccola imprenditrice, transgender, cinica e
parecchio stanca. Il fatto è che con gli anni, ora ne ho 62, si è incrinata
fatalmente quella forza che pensavo invincibile che mi ha permesso di
sopravvivere e di avvicinarmi il più possibile all’idea che avevo di me e di
quella che volevo fosse la mia piccola felicità. Le scrivo, prima di deporre le
armi, esausta e sconfitta, non per essere consolata, ma perché il dubbio che mi
è venuto è che la mia questione sia addirittura filosofica ancora prima che
privata. Da giovane, pur essendo “piacente”. Ho rifiutato quella professione
che non mi apparteneva, seguendo una mia vocazione per la cosiddetta normalità,
lo studio, le piante e i fiori. Ma il mondo ha sempre preteso da me sensualità,
eccentricità, mistero, come se il mio corpo parlasse un linguaggio potentissimo
e fuori dal mio controllo, molto più eloquente a quanto pare del mio pensiero,
dei miei valori e della persona alla fine banale che sono. Sono stanca di
dimostrare e di dover essere autoironica anche quando il pregiudizio, mi
ammazza. Ecco, lei che hai studiato, mi dica: l’istinto di conservazione della
specie è una cosa troppo grande perché una trans possa pretendere di vivere
tranquilla senza rappresentare una minaccia cosmica? C’è una forza universale
che cospira contro la diversità? Se mi abbandonassi, ora, come uno scherzo
della natura, dimenticando discorsi di dignità e realizzazione, l’umanità
avrebbe pietà di me? E mi tratterebbe meglio? Le regalo un giglio, anche solo
per il tempo che ha impiegato a leggermi. Grazie. Donata/Gionata gionata5555@libero.it
I Transgender, Che la nostra cultura, nonostante la sua
proclamata (ma solo proclamata) laicità, ha sempre tenuto ai margini, meritano
di essere posti al centro del discorso, se non altro per capire, dai segni che
espongono e i simboli che rinviano a un’ulteriorità di senso, se alle volte non
stanno annunciando un futuro che riguarda tutti. Mi riferisco
all’oltrepassamento dell’identità sessuale fissata nella differenza tra
maschile e femminile, nonostante da tempo biologia e psicologia ci dicono che
nessuno è per natura relegato in un sesso, visto che l’ambivalenza sessuale,
l’attività e la passività, sono iscritte come differenze nel corpo di ogni
soggetto e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale.
Ciò nonostante ciascuno tende a rimuovere la sua originaria ambivalenza
erogena, per consegnarsi alla sua anatomia: così può essere accolto senza
fraintendimenti nell’ordine sociale. Lei ha rispettato la sua ambivalenza e per
questo ha dovuto, come dice, dimostrare, giustificare, dissimulare, sopportare
il pregiudizio, quando non la segregazione, spesso non manifesta perché
mascherata da una falsa e ipocrita accettazione (..). Oggi, nell’epoca della
tecnica, che solo gli ingenui pensano che sia ancora uno strumento nelle mani
dell’uomo, quando invece è il nostro mondo che decide anche il nostro modo di
essere al mondo, la realtà tende sempre meno a ospitare l’antica differenza tra
“natura” e “artificio”. Infatti se il mondo che abitiamo è per intero
“costruito”, solo un ritardo linguistico può chiamare l’aspetto con cui oggi le
persone si presentano e le scene del mondo che abitiamo “artificiali” tenendole
distinte da quelle “naturali”. L’idea di natura, che la tecnica ha ridotto a
semplice materia prima, ha cessato da tempo di valere come un referente. A
questo punto il corpo del transgender non è una deviazione, ma una conferma
della caduta di questo referente. E dove non c’è referente, non c’è una norma,
misura, orizzonte, identità da salvaguardare, differenze da mantenere come
accade quando la natura (espressione della specie che ha in vista unicamente la
procreazione) è assunta a norma, con conseguente limitazione della libertà
espressiva di ciascun individuo. Il transgender, rifiutando di assumere il
sesso come segno distintivo della sua identità personale, apre quel ventaglio
di scelte che gli individui possono fare per sentirsi a casa nel loro corpo,
nel rispetto dell’ambivalenza che caratterizza ognuno di noi, e che ognuno di
noi tende a misconoscere per garantirsi l’accettazione sociale.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 20 maggio
2017 -
Nessun commento:
Posta un commento