Qualche Settimana Fa vi ho raccontato la storia del mio
amico Mark Hertsgaard, grande firma del giornalismo investigativo americano: e
di come gli sia diventato quasi impossibile mantenersi facendo il suo mestiere.
Per me il deperimento dei giornali non è una questione “corporativa”. Non
riesco a immaginare una democrazia sana senza un ruolo dei media. Da
giovanissimo vidi da vicino come funzionava l’Unione Sovietica e non trovai lì
un modello alternativo. Più di recente ho vissuto cinque anni in Cina e sono
stato nuovamente vaccinato contro il fascino sinistro dei regimi autoritari.
Perciò sul futuro dei media dialogo spesso, a New York, non solo con i miei
colleghi americani ma con tanti giovani italiani che vengono qui proprio perché
vogliono fare i giornalisti. Ho già dato la parola a una 26enne, oggi è la
volta di un trentenne, Luca Marfé. Qualche volta ha collaborato anche con la
Repubblica. Come molti della sua generazione, poiché le testate pagano pochissimo,
lui si arrangia facendo anche altri mestieri (incluso quello di fotografo). E’
molto attivo – di sicuro più di me – sui social media. Gli ho chiesto come vede
il futuro del giornalismo, se ne vede uno. Vi riassumo la sua risposta. “Gli
spazi sono pochi”, dice Luca, “e la concorrenza è spietata. Alle volte si teme
persino di reclamare dignità e soldi che, per quanto possa apparire venale,
spesso camminano tenendosi per mano. L’orizzonte di un’assunzione vera e
propria, non sempre ma con una frequenza preoccupante, passa attraverso trafile
capaci di durare molti anni. Pochi possono permetterselo. Questo rappresenta un
doppio colpo in negativo: spesso quelli davvero bravi trovano strade
alternative al giornalismo ed £emigrano”; talvolta neppure le persone brillanti
ce la fanno e, se non si arrendono strada facendo, non è detto che arrivino a
tagliare traguardi importanti. Tutto questo, però, vale in un’ottica
tradizionale. Nella quale non credo più. New York, dove vivo da circa due anni,
ha fatto esplodere questo concerto contro le barriere che avevo nella testa e
che limitavano la mia interpretazione del giornalismo. Siamo liberi
professionisti in un Terzo Millennio che ci ha sbarrato la strada che si presta
ad alternative affascinanti. Per quanto non sempre affidabili, i social sono
una finestra sulla nostra società. Facebook e Twitter mi consentono, ad
esempio, di essere in Italia anche quando non sono in Italia. I media restano
la fonte numero uno di notizie (non credo nel giornalismo improvvisano in stile
YouReporter), e i social media fanno da contraltare: basta fare “due passi” sul
web, infatti, per imbattersi in commenti reazioni, umori. Una fotografia del
nostro Paese, ma anche di qualsiasi altro scenario utile, se non nello
strutturare un’analisi vera e propria, quanto meno nel corredarla. In qualsiasi
forma di lettura oggi prevale la rapidità. Mi rendo conto di essere travolto da
titoli, notizie brevi, manciate di righe o poco più, Per il tipo di lavoro che
facciamo, ci imponiamo letture e riflessioni più vaste, fuggendo tra le pagine
a noi care di quotidiani, riviste e soprattutto libri. Ma si tratta oramai di
una tendenza di nicchia. Le statistiche parlano chiaro: il tempo che abbiamo a
disposizione si riduce, e tra smartphone e computer l’informazione corre
velocissima, Di conseguenza, si fa stringata. I giornalisti della generazione
precedente hanno avuto una strada, noi dobbiamo inventarcela. Siamo in affanno,
ma le difficoltà forgiano il carattere. Ho grande rispetto per l’esperienza,
anche se non amo chi ci osserva dall’alto in basso solo perché ha i capelli
bianchi. Sono certo che anche la mia generazione possa dire la sua”
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 20
maggio 2017 -
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