Se Fossi Donna, potrebbe succedermi di affrontare l’esperienza di una gravidanza
indesiderata. Se fossi donna e decidessi di abortire, mi arriverebbero i
giudizi o gli insulti di una banda di uomini vestiti di tonache ora nere, ora
bianche, ora viola, che per voto non si “accompagnano con donne” e che per
genere non possono affrontare una gravidanza, né una sua interruzione. Troppo
spesso incontrerei persone in camice bianco, coscienziosamente genuflesse a
quelle degli altri, che mi negano la contraccezione di emergenza o l’aborto
farmacologico e si oppongono alla mia scelta, impedendola. Combattere perché
questa guerra alle donne finisca, non solo per un giorno ma per sempre, posso
farlo anche da uomo.
Lasciamo Perdere Le tonache, nere, viola, rosse, bianche
che, a partire dalla loro visione religiosa del mondo, esprimono una morale
che, a differenza di quel che accadeva un tempo, può essere accolta o rifiutata
in tutta libertà. E volgiamo invece la nostra attenzione ai camici bianchi che
si astengono da alcuni atti medici, come l’interruzione di gravidanza, la
sterilizzazione, la prescrizione della pillola abortiva, in base a motivazioni
del tutto extra-mediche che fanno riferimento esclusivo alla loro personale
coscienza, le cui scelte hanno naturalmente conseguenze anche gravi sulla vita
di chi ne fa richiesta. La cultura medica ha fatto un passo avanti quando ha
tematizzato il rapporto medico-paziente (“tematizzato” significa che sono
apparso molti studi e si sono organizzati molti congressi che avevano come tema
il fatto che l’arte medica non ha a che fare solo con un organismo, ma anche e
soprattutto con un soggetto). Questo rapporto duale medico-paziente, anche se
non è sempre e ovunque attuato, è una cosa buona, perché è vero che la medicina
ha a che fare con l’oggettività dell’organismo, ma non può trascurare il fatto
che in questa oggettività è iscritta la soggettività di una persona.
L’organismo è l’elemento oggettivo, ma è il soggetto a essere in gioco. E
tuttavia il rapporto medico-paziente non esaurisce la responsabilità del primo,
perché questa non è mai esclusivamente “personale”, ma anche “sociale”. E ciò è
dovuto al fatto che, in quanto mandatario della società, il medico è un servitore
della salute pubblica, e pertanto la sua coscienza, oltre che della
soggettività del paziente, deve farsi carico anche della società. Come peraltro
già accade nella medicina preventiva, nella pratica delle vaccinazioni,
nell’isolamento delle malattie infettive e in altri casi analoghi. Ora, può
accadere che l’etica della responsabilità sociale possa dare ordini diversi
rispetto all’etica personale. E questo sia su vasta, sia su piccola scala. Su
vasta scala la sfera riproduttiva, per esempio, non è mai una questione
esclusivamente privata dell’interessato e neppure del medico e della sua
coscienza. Infatti sappiamo tutti che l’eccessiva esplosione su scala mondiale
della popolazione è il principale problema dell’umanità, passata dai due
miliardi degli anni ’50 del secolo scorso agli attuali sette miliardi. E ciò ha
determinato la progressiva distruzione dell’ambiente, il degrado della biosfera
dovuto all’aumento dei consumi e all’incremento della tecnica necessaria per
nutrire tutti, con la prospettiva della miseria di massa di un’umanità affamata
e col rischio che l’istinto di sopravvivenza, il più primitivo degli istinti
per cui o vivo io o vivi tu, metta fuori gioco tutte le etiche umane,
faticosamente conquistate nel corso dei secoli. Questa responsabilità a lungo
termine, che forse non è così lontana, è presa in considerazione dalla
coscienza personale del medico? O anche qui scatta l’obiezione di coscienza? Al
di là di questi scenari apocalittici, ma non improbabili e tanto meno remoti,
su piccola scala mi chiedo se i principi che regolano le decisioni del medico
in base alla sua coscienza (principi che sono poi le sue convinzioni, frutto
dell’educazione, della morale personale morale o dell chi ha goa fede) si fanno
carico degli effetti della decisione che ne consegue? O sono principi che
soddisfano unicamente la coerenza della propria coscienza personale che non si
fa carico minimamente delle condizioni di miseria di chi si trova chi ha già
molti figli nell’indigenza, della tragedia delle gravidanze in età
adolescenziale, dell’infelicità futura di feti affetti da malattie ereditarie,
delle conseguenze di interventi non professionali a causa del rifiuto di
intervenire da parte di troppi medici, ai quali basta la quiete della propria
coscienza che non si fa minimamente carico della responsabilità sociale dà
ordini diversi rispetto all’etica personale, perché è quasi sempre la prima a
essere sacrificata da parte di medici, che tra l’altro dimenticano di essere
servitori della salute pubblica?
umbertogalimberti@repubblica.it - Risponde – Donna di La Repubblica – 13 maggio
2017 -
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