“Fuorigioco”. La
Bandierina Gialla del
guardialinee si alza come una ghigliottina di tela a tagliare l’urlo nella gola
dei parenti al bordo campo. Ma sono grida molto diverse quelle che accompagnano
l’annullamento do un gol. Tra loro ci sono voci di speranza per una vita
diversa, che sventola via con l’aria che muove la bandierina gialla. Qui, tra
le colline del Maryland dalle quali vi scrivo con il mio piccolo portatile
sulle ginocchia, in un sobborgo chiamato Gaithersburg dove trascorro sabati e
domeniche a guardare crescere tre dei miei paperini rincorrendo palloni, si
allarga una distesa inimmaginabile per le nostre dimensioni italiane di venti,
dico venti, campi da calcio di misure regolamentari, tra fondi di erba naturale
e artificiale per tutte le stagioni. Deve avere la stessa superficie del
Lussemburgo (esagerazione ed effetto tipicamente giornalistica). Partite per
bambini, bambine, ragazzi e ragazze scorrono senza interruzione dall’alba fino
a notte, quando si accendono le luci artificiali. Nelle ore di punta, durante
il weekend, ci sono più di 500 giocatorini che razzolano sul verde dei campi, e
dunque migliaia di parenti e amici di famiglia. Tutti, e spesso più gli adulti
che i loro figli, sono accomunati dall’ansia di vincere, ma la comunione dei
sentimenti finisce qui. Termina n una distinzione che nessuno ammette di
vedere, ma che tutti conoscono: per alcune di quelle famiglie il successo dei
figli sul campo è pura gratificazione genitoriale, semplice orgoglio di nonno o
di mamma davanti alle prodezze delle proprie creature. Per altri, il gol fatto,
il passaggio preciso, la parata acrobatica, può essere la conquista di una vita
migliore. Lo sport organizzato, che negli Stati Uniti coinvolge secondo stime
un po' a spanna ma credibili più di 20 milioni di piccoli americani e di adolescenti
fino a 17 anni, non è la chiave che apre le porte d’oro dei contratti
professionistici, ma il passepartout per una borsa di studio sportiva nelle
Università e nei licei più esclusivi che si contendono gli atleti migliori. Per
molti di questi bambini, i 250mila dollari necessari ormai per pagarsi retta e
alloggio universitari per una laurea quadriennale sono irraggiungibili. Come il
football americano o il basket sono l’uscita dal labirinto, spesso mortale, dei
casermoni popolari trasformati in ghetti, così il calcio è il santo protettore
degli ultimi immigrati ispanici, con o senza documenti e permessi di soggiorno,
perché, come vediamo ogni giorno in Europa, a un profugo che sa palleggiare e
dribblare tutto si perdona. Forse uno, o due, dei 500 fra maschi e femmine che
sgambano sui 28 campi del complesso sportivo vincerà la lotteria della scholarshio, della borsa di studio
offerta da misteriosi signore e signori che si aggirano prendendo appunti sui
loro tablet, segnandosi nomi di giocatorini da seguire e magari da bloccare
subito, perché lo sport è prima di tutto business, affari. Non sono tanto
generoso da sperare che gli avversari dei miei nipoti, che hanno la fortuna di
non dover partecipare alla lotteria della futura università se non per la loro
sperabile diligenza, vincano. Ma ricordo troppo bene il volto disperato di mamite salvadoregne, honduregne,
messicane, guatemalteche quando allenavo squadrette di tredicenni e mi
imploravano di mandare in campo i loro figli, in presenza di uno scout, un reclutatore
di piccoli talenti, per non capire la loro disperazione davanti a una
sconfitta. So che quel fischio dell’arbitro, quella bandiera crudelmente
sventolata può fare la differenza fra un futuro e tagliare l’erba degli altri o
avere un pezzetto di prato per sé.
Vittorio Zucconi –Opinioni – Donna di La Repubblica – 13
maggio 2017 -
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