“Tu chiamale, se vuoi, emozioni”
cantava Lucio Battisti, lamentando la difficoltà di far capire agli altri gli
stati mentali suscitati da comportamenti estremi, poetici, violenti o
rischiosi. Per dare un nome alle sue sensazioni gli sarebbe stato forse utile
il lavoro svolto da Tiffany Watt Smith, ricercatrice della facoltà di English
and Drama alla Queen Mary University di Londra, che con l’Atlante delle emozioni umane (Utet) si è assunta l’improbo compito
di elencarle tutte, ciascuna con i relativi riferimenti scientifici, filosofici
e letterari, arrivando a una lista di 156: dalla A dell’abhiman (orgoglio di sé quando si viene offesi) citato nei Veda
alla Z di zal (la malinconia polacca)
presente nelle composizioni di Chopin. “Già definire cosa sia un’emozione è un
problema” dice Watt Smith. “In parte di tratta di un insieme di risposte
“automatiche”, a fronte di stimoli del mondo esterno, che condividiamo con gli
animali. Su questa base gli umani costruiscono però una risposta cognitiva
molto varia, complessa e dipendente dal contesto culturale. Prendiamo la paura:
provoca gli stessi effetti fisiologici, come l’aumento del battito cardiaco e
della sudorazione, in noie e negli animali, ma negli uomini non è solo una
risposta a una minaccia reale, può essere anche l’esaltazione data dalla “paura
sacra” di fronte alla divinità o la paura divertente” di chi pratica sport
estremi. Le emozioni umane sono così determinate dal contesto culturale che, se
il linguaggio non le definisce, sembrano non esistere proprio: i tahitiani, per
esempio, non hanno una parola per “tristezza” e quando subiscono un lutto
interpretano ciò che sentono come una malattia fisica. “Per restare più vicino
a noi, in tutti i Paesi del Nord Europa esistono parole, come la danese gezelligheid, per definire il piacere di
stare al caldo con gli amici mentre fuori si gela, un’emozione che voi
mediterranei non avete definito. E poi sono tante emozioni belle e importanti
che noi Occidentali non riconosciamo. La mia preferita è la giapponese amae, che è lo struggente desiderio di
abbandonarsi con fiducia a qualcuno, come un genitore, un leader o un partner.
Sappiamo tutti di che cosa si tratti, ma solo i giapponesi hanno una parola per
dirlo. Bell anche l’awumbuk del
Baining, in nuova Guinea: è la sensazione di vuoto che resta dopo che dei
graditi ospiti se ne sono andati. Magari a noi sembra stanchezza, ma per loro è
una sensazione tanto potente da averli spinti a elaborare specifici riti per
superarla. Amo però anche il vostro “Dolce far niente”, una piacevole pigrizia
senza sensi di colpa”. Percezione e significato delle emozioni variano con le
epoche. “Oggi l’emozione regina è l’elusiva felicità, il cui perseguimento
ossessivo è cosa recente, forse perché è utile ai consumi. Fino al XVII secolo
si consigliava di coltivare la tristezza, in modo da imparare a controllare in
vista degli inevitabili dolori della vita. E se oggi la nostalgia, in tempi di
internet e voli aerei, è un sentimento quasi piacevole, fino a cent’anni fa era
considerata pericolosa, causa di morte di persone lontane da casa”. Ci sono poi
emozioni non troppo positive, come la tedesca Freudenschade, la gioia maligna di vedere gli altri nei guai, o il liget degli Illongot delle Filippine: è l’energia rabbiosa suscitata da un
evento avverso, che per gli Illongot si placava solo tagliando la testa a un
nemico. “Ma anche queste emozioni negative hanno una loro funzione.
Innanzitutto sono la controparte inevitabile di quelle positive: l’amore è
impensabile senza il dolore del distacco, il desiderio senza l’invidia. La
disperazione segnala ad altri il nostro bisogno di aiuto e persino il terribile
“fascino del vuoto”, il desiderio immotivato di lanciarci da una scogliera
osotto un treno, secondo Sartre potrebbe servire a ricordarci di non fidarci
dei nostri istinti. Altre emozioni negative, come la ringxiety, l’ossessione di perdere una telefonata importante,
derivano da cose positive come l’avere sempre un comodo telefonino in tasca.
Pensate sia un’emozione attualissima? Sbagliato: gli Inuit conoscono da secoli
l’iktsuarpok, l’ansia di scrutare le
distese ghiacciate per vedere se arrivano gli amici”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica – 28
Aprile 2017 -
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