“Che poi Centocelle è vicina, in 20
minuti ci siamo arrivati”, mi dice Andrea una volta arrivati in ufficio nel
centrale quartiere di Prai (che per me, nato, cresciuto e vissuto a San
Giovanni, risulterà sempre Roma Nord). Sì, Centocelle, Roma est, non è alla
periferia del mondo. Centocelle è Roma, Roma piena, Roma da sempre, a portata
di mano, di scooter e sentimenti. Centocelle, se non ci vai e ti limiti a
leggerne il nome in cronaca, sembrerebbe avere il fascino maledetto dei posti
mentalmente concepiti come distanti, difficili da raggiungere più emotivamente
che fisicamente. E invece no. Arrivare nel parcheggio dove la notte prima sono
state bruciate vive tre sorelle rom di 20, 8 e 4 anni che dormivano con altri 8
membri della famiglia in un camper, è relativamente semplice. Una volta
arrivato ti scordi presto di stare nella “terribile” Centocelle, cerchi degrado
ma hai visto di peggio, cerchi popolo ma non c’è nessuno, la gente lavora, va a
scuola o sta a casa, qui come altrove. In compenso aumentano le telecamere a
braccare chi viene a rendere omaggio alla macchia nera lasciata dal rogo del
camper ormai rimosso) sul cemento. Che è una traccia tragica, infame,
criminale, disumana lasciata in un posto chiamato Centocelle, che comunque è
Roma, che comunque è l’Italia nel 2017. Per trovarne altre di tracce del
presente, basta alzare di poco lo sguardo. “Lunga vita al Duce, “W er Duce”,
“frocio”, (con orgogliosa allusione al tifoso del Napoli ucciso a Roma da un
romanista di estrema destra), svastiche, celtiche, bestemmie, qualche ostinata
frase d’amore. C’è soprattutto questo scritto e disegnato sui muretti che
perimetrano il parcheggio del rogo. A Centocelle come a San Giovanni, come a
Prati, come in quasi tutta la città, dove il rigurgito fascista si manifesta
spudorato. Sono tracce coerenti e affini son gran parte di quanto nelle stesse
ore si rinviene sui social network, dove per scaricare odio e razzismo non
occorre nemmeno sporcarsi con lo spray, dove basta sapere che a morire sono
stati dei rom per trovare il coraggio di esprimere, spesso con nome e cognome,
il rammarico che non ne siano morti di più. Sapere che ad uccidere pare sia
stata una faida tra clan, infine monda definitivamente la coscienza di chi
sembra quasi avere il rimpianto di non aver contribuito al crimine. Il giorno
dopo, incurante dei fiori lasciati sul posto da chi ha provato a chiedere scusa
per tutti, una signora, con tutto il parcheggio a disposizione, si ostina a
parcheggiare la macchina proprio su quella macchia nera.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La
Repubblica – 19 maggio 2017 -
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