“Intanto fatemi dire grazie, che ancora
non l’ho fatto”. Gabriele Del Grande, documentarista, giornalista indipendente,
punto di riferimento da anni per chiunque voglia approfondire le mille
variabili legate al grande, tragico e fantastico romanzo dell’immigrazione, da
quando è rientrato in Italia non ha ancora avuto modo di realizzare davvero
quello che succedeva qui durante la sua inspiegabile reclusione in Turchia.
Ospite di Gazebo, due giorni dopo il tanto sperato quanto imprevisto ritorno a
casa, si rende conto per la prima volta del diluvio di dichiarazioni tweet e
iniziative dal basso e dall’alo che ne hanno preteso la liberazione durante i
12 giorni di “violenza istituzionale” (parole di Del Grande) che lo hanno visto
protagonista. Fa impressione averlo accanto quando solo ventiquattro ore prima
le voci che giravano più insistentemente erano quelle di un possibile
prolungamento del suo fermo fino a sei mesi. E invece me lo ritrovo seduto
vicino a raccontare un’avventura che, per un animo per natura e professione
curioso, fino ad un certo punto gli èanche sembrata un’opportunità. Lui che era
partito per scrivere un libro senza editori che non fossero i tanti estimatori
del suo lavoro che avevano aderito al crowdfunding
online, si ritrova improvvisamente nella difficile terra di nessuno di coloro
che, avendo vissuto una brutta avventura, invece di raccontare le storie degli
altri si ritrova a dover cominciare dalla propria. Ragion per cui, già a pochi
minuti dal suo rilascio, non è difficile trovare online o sui giornali che
accusavano Enzo Baldoni di fare “vacanze intelligenti”, illazioni circa i suoi
finanziamenti poco cristallini (“Lo paga Soros”) o sulle sue presunte simpatie
per l’Isis, fino a chi lo definisce “tronista” o prevede per lui un futuro da
candidato buono per le prime elezioni utili. Infine, o tutt’intorno, l’accusa
di cercare pubblicità, di voler promuovere se stesso e il libro che sarà.
Quello che tracima dai social network, è la totale, disarmante e colpevole
mancanza di strumenti per capire quanto ci sia bisogno di gente che decide di
ascoltare e raccontare storie sporcandosi tra i mille livelli di lettura di
fenomeni decennali e maledettamente complicati da comprendere, sempre e
comunque, prioritariamente, dalla parte degli ultimi. Quello che manca è
l’orgoglio di poter conoscere il lavoro di Del Grande e di quelli come lui. La
“colpa” di esser tornato vivo, per chi spesso non si ferma nell’insulto o nel
complottismo nemmeno davanti alla morte, di questi tempi può sembrare un
affronto troppo grave da sopportare.
Diego Bianchi –Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La Repubblica
– 5 Maggio 2017 -
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