Negli Anni Confusi e derelitti della scuola media ero
una ragazzetta ombrosa, aggrovigliata e inconsapevole di sé. Volevo piacere e
pensavo di non esserne capace, desideravo dorme da donna e vedevo l mio corpo
refrattario alle curve, sognavo un amore e mi maceravo nel timore che mai
nessuno, nemmeno quegli sgorbi brufolosi e rozzi dei mei compagni di classe, mi
avrebbe mai scelta. Per un periodo fui perdutamente innamorata di Savino, un
riccioletto pluribocciato dagli occhi verdi. Si narrava che andasse in giro
armato e che, oltre a un motorino truccato guidasse dall’età di 12 anni la Fiat
Ritmo del padre latitante. Devo al deviante e acerbo Savino i miei primi
languori che si trasformarono in nera disperazione quando un giorno di
primavere lo vidi avvinghiato a Tiziana, inarrivabile e giunonica bionda di
terza C. La mia nonna paterna, napoletana e saggia, si accorse del mio disagio
esistenziale e si inventò un modo per sublimare i miei tormenti e le mie
frustrazioni. Un sabato pomeriggio prendemmo insieme il tram e andammo al
cinema a vedere un film romantico. Fu il primo di una lunga serie di pomeriggi
trascorsi con lei al buio, sgranocchiando popcorn e tirando su col naso.
Diventammo esperte del genere “pellicole di amori disperati ma a lieto fine con
protagonisti adolescenti”. Dopo la visione, sul tram del ritorno, seguiva il
dibattito che ci vedeva quasi sempre concordi nel giudizio, nonostante i 60
anni rotondi che ci separavano. Pur non avendo io né l’età né il physique du role, mia nonna mi
regalava il superpotere di immaginarmi altrove una volta alla settimana.
Qualche giorno fa una mia amica ha postato, forse preda di un raptus
nostalgico-regressivo, uno spezzone di un film francese degli anni ’80, Il
tempo delle mele, diventano leggendario grazie a una deliziosa Sophie Marceau
adolescente e a un’ipnotica colonna sonora, saldamente in vetta alla classifica
dei sabati pomeriggio con la nonna. Sono bastati quattro minuti di quel video
per farmi tornare a quegli anni di struggimenti e malinconie, seguiti per
fortuna da tempi migliori di brividi e prime volte e dalla scoperta che la
felicità amorosa non ha alcuna correlazione con la misura del reggiseno. Mio
figlio maggiore muove passi spavaldi nel territorio impervio e incantato dei
primi amori. Affronta le insidie dei suoi 14 anni con una spacconeria e una
leggerezza che a me erano estranee. Eppure ogni tanto scorgo sguardi liquidi,
indovino palpitazioni, cerco introvabili risposte a vitali interrogativi
(“Mamma, ma perché voi femmine siete così strane? Perché è così difficile
capire cosa volete?”), ripercorrono il io passato attraverso il suo presente.
Ho lo stesso amore da oltre vent’anni. Figlia di genitori divorziati,
circondata da coppie che si frantumano, conosco l’inestimabile valore della
nostra longevità, pur ignorandone la ricetta. Amo la consuetudine. La
telepatia, la complicità, la conoscenza reciproca di testa, cuore, pancia e
tutto il resto. Un vecchio amico, divorziato, di recente si è innamorato di
nuovo. “Erano secoli che non mi sentivo così”. “Così come?”. “Percorso dalla
corrente elettrica. Vivo. Capisci?”. Certo che capisco. Lo colgo nell’euforia
inquieta di mio figlio che si posa su cento fiori inebriato. <lo ritrovo nei
miei diari di ragazza malmostosa, nella memoria dei miei vent’anni, negli
esordi palpitanti del grande e attuale amore della mia vita. Lo ricordo
meraviglioso e sfibrante, travolgente e micidiale. Mi manca? Mentirei se
dicessi di no. Forse questa sera mi rivedrò Il
tempo delle mele.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 13
maggio 2017 -
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