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lunedì 13 luglio 2015

Lo Sapevate Che:Il senso dei greci per il dolore...



Affronto il mio dolore e quello di chi ho accanto ogni giorno da 11 anni. La malattia è invalidante e progressiva e ci costringe dentro i limiti stretti di un arresto domiciliare, quando prima la nostra vita e il nostro lavoro erano perfetti per noi, spazi aperti e indipendenza. Lotto tutti i giorni con la mia voglia di vivere, cercando di digerire l’idea di tutto ciò a cui dovrò rinunciare in futuro, mentre perdo mio marito un pezzo alla volta. Ho cercato in ogni dove la forza di andare avanti, di far passare gli anni con la consapevolezza di rinunciare ogni giorno alla mia vita, mentre il mio lato egoico, direbbe lei, spinge per uscire, per vivere. Ho fatto capolino al supermarket della fede, leggendo libri, ascoltando gli altri, ma il carrello è rimasto sempre vuoto. L’amica buddista mi dice che è il mio Karma, la cattolica che avrò una ricompensa nell’aldilà, che il dolore espia le colpe. Nessuna di queste cose mi convince. Solo i suoi Greci mi hanno fatto sentire meno sola, quando dicono che non c’è alcun senso nel dolore: se arriva, sostienilo. Per me non c’è che una stoica consapevolezza del dolore e la ricerca della forza per sostenerlo, finché qualcosa non cambierà. Questi pensieri mi hanno fatto sentire meglio. (..). Lei ha acceso il mio interesse e mi ha fatto guardare le cose da un’altra angolazione, di questo la ringrazio dal profondo della mia mente. Lei dice di essere “greco dentro”, mi piacerebbe avere gli strumenti per capire.  Enrica
Il dolore non è mai un evento solitario che riguarda solo chi è afflitto dal male. Il dolore investe anche chi è accanto a chi soffre e vede la sua vita rattrappirsi e raccogliersi in quegli sguardi che impietosamente non mentono su un futuro che non c’è più e nel ricordo di un passato felice che non ritorna. Resta solo un assoluto presente che reitera di giorno in giorno le pratiche di cura, neppure accompagnate, come nel suo caso, da uno spiraglio di speranza. La coscienza è combattuta tra il desiderio che l’evento si compia per ricominciare a vivere e il senso di colpa per aver osato concepire un simile pensiero. Gli altri non capiscono e diradano la loro frequentazione, perché sanno di non avere parole che sappiano sinceramente consolare. La solitudine si fa abissale. E non c’è fede che tenga, talvolta neppure la forza di sostenere la cura quotidiana. Non si affligga per l’ambivalenza dei suoi sentimenti. Sono naturali e appropriati. (..). I Greci che lei richiama queste cose le sapevano perché non si affidavano a cieche speranze, e per questo Nietzsche parla di loro come degli altri popoli: “hanno avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore”. (..) Per questo, a Re Mida che chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile nella vita, il saggio Sileno risponde: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sapere? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile. Non esser nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa per te è morire presto”. Per questo, scrive ancora Nietzsche, la tragedia non è un genere letterario, ma la perfetta descrizione della condizione umana, la cui consapevolezza si estinse con la fine della grecità. E Karl Jaspers, di rincalzo: “Neppure Shakespeare è un tragico, perché ormai vive nell’era della speranza cristiana”. Non voglio proseguire con queste considerazioni, che a chi non conosce la condizione di quel dolore, per il quale ogni rimedio è inefficace, possono apparire puri esercizi letterari. (..). Le ho accennate solo per lei,che mi dice di trovare in questi riferimenti greci un minimo di conforto. Spero che continuino a sostenerla. Per il resto, mi abbia accanto come un compagno di viaggio che ha conosciuto queste cose.
umberogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 11 luglio 2015 -

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