Affronto il mio dolore e quello di chi ho accanto ogni giorno
da 11 anni. La malattia è invalidante e progressiva e ci costringe dentro i
limiti stretti di un arresto domiciliare, quando prima la nostra vita e il
nostro lavoro erano perfetti per noi, spazi aperti e indipendenza. Lotto tutti
i giorni con la mia voglia di vivere, cercando di digerire l’idea di tutto ciò
a cui dovrò rinunciare in futuro, mentre perdo mio marito un pezzo alla volta.
Ho cercato in ogni dove la forza di andare avanti, di far passare gli anni con
la consapevolezza di rinunciare ogni giorno alla mia vita, mentre il mio lato
egoico, direbbe lei, spinge per uscire, per vivere. Ho fatto capolino al
supermarket della fede, leggendo libri, ascoltando gli altri, ma il carrello è
rimasto sempre vuoto. L’amica buddista mi dice che è il mio Karma, la cattolica
che avrò una ricompensa nell’aldilà, che il dolore espia le colpe. Nessuna di
queste cose mi convince. Solo i suoi Greci mi hanno fatto sentire meno sola,
quando dicono che non c’è alcun senso nel dolore: se arriva, sostienilo. Per me
non c’è che una stoica consapevolezza del dolore e la ricerca della forza per
sostenerlo, finché qualcosa non cambierà. Questi pensieri mi hanno fatto
sentire meglio. (..). Lei ha acceso il mio interesse e mi ha fatto guardare le
cose da un’altra angolazione, di questo la ringrazio dal profondo della mia
mente. Lei dice di essere “greco dentro”, mi piacerebbe avere gli strumenti per
capire. Enrica
Il dolore non è mai un evento solitario che riguarda solo chi
è afflitto dal male. Il dolore investe anche chi è accanto a chi soffre e vede
la sua vita rattrappirsi e raccogliersi in quegli sguardi che impietosamente
non mentono su un futuro che non c’è più e nel ricordo di un passato felice che
non ritorna. Resta solo un assoluto presente che reitera di giorno in giorno le
pratiche di cura, neppure accompagnate, come nel suo caso, da uno spiraglio di
speranza. La coscienza è combattuta tra il desiderio che l’evento si compia per
ricominciare a vivere e il senso di colpa per aver osato concepire un simile
pensiero. Gli altri non capiscono e diradano la loro frequentazione, perché
sanno di non avere parole che sappiano sinceramente consolare. La solitudine si
fa abissale. E non c’è fede che tenga, talvolta neppure la forza di sostenere
la cura quotidiana. Non si affligga per l’ambivalenza dei suoi sentimenti. Sono
naturali e appropriati. (..). I Greci che lei richiama queste cose le sapevano
perché non si affidavano a cieche speranze, e per questo Nietzsche parla di
loro come degli altri popoli: “hanno avuto il coraggio di guardare in faccia il
dolore”. (..) Per questo, a Re Mida che chiedeva quale fosse la cosa migliore e
più desiderabile nella vita, il saggio Sileno risponde: “Stirpe miserabile ed
effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per
te è vantaggioso non sapere? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile.
Non esser nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa per te è morire
presto”. Per questo, scrive ancora Nietzsche, la tragedia non è un genere
letterario, ma la perfetta descrizione della condizione umana, la cui
consapevolezza si estinse con la fine della grecità. E Karl Jaspers, di
rincalzo: “Neppure Shakespeare è un tragico, perché ormai vive nell’era della
speranza cristiana”. Non voglio proseguire con queste considerazioni, che a chi
non conosce la condizione di quel dolore, per il quale ogni rimedio è
inefficace, possono apparire puri esercizi letterari. (..). Le ho accennate
solo per lei,che mi dice di trovare in questi riferimenti greci un minimo di
conforto. Spero che continuino a sostenerla. Per il resto, mi abbia accanto
come un compagno di viaggio che ha conosciuto queste cose.
umberogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 11 luglio 2015 -
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