“L’Italia Non E’ Un
Rischio per la
stabilità dell’euro, anzi. Lo scetticismo tedesco contro l’Europa lo combatto prendendo
ad esempio il risanamento compiuto dall’Italia in vista dell’euro”. Così
parlava il 13 marzo 1998 Wolfang Schauble, all’epoa numero uno della Cdu,
accolto a Roma dal premier Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi (ministro del
Tesoro) e Giorgio Napolitano (ministro dell’Interno). Era il momento
dell’euro-entusiasmo, la partenza della moneta unica, con l’Italia nel gruppo
di testa. Schauble era l’erede del cancelliere Helmut Kohl, il volto della
Germania europeista. Oggi, al contrario, è la stagione dell’euro-rancore. La
fine dell’Europa come terra promessa, orizzonte delle ultime due o tre
generazioni politiche. Nella terra inesplorata si trova Matteo Renzi, costretto
a fare da comprimario durante lo scontro Ue-Grecia, “lontano dai riflettori”,
ha ammesso il premier, condizione per lui inusuale. Dopo il risultato deludente
delle elezioni amministrative l’inquilino di Palazzo Chigi aveva dichiarato di
voler abbandonare i panni del Renzi 2, l’uomo di Palazzo, per tornare al Renzi
1, l’innovatore prima maniera. Ma il vero nuovo Renzi è quello visto in questi
giorni: prudente (“abbiamo giocato la arta del buon senso”), pronto a
rivendicare, addirittura, l’impopolarità delle sue riforme. Finisce la fase del
populismo istituzionale, di riformismo populista, il leader che rompeva gli
schemi, che rivoluzionava il sistema con maggiore efficacia rispetto al
Movimento 5 Stelle. Comincia la stagione dei rinvii (la riforma del Senato dopo
l’estate) e della diplomazia. In Europa Renzi ha puntato a mostrarsi
affidabile, inattaccabile sul piano del rigore, con un ambizioso piano di
riforme (l’abolizione del bicameralismo perfetto, il cambio di regole nel
mercato del lavoro) per accumulare credibilità. Un tesoretto di fiducia da
poter scaricare al momento giusto, per ottenere dall’Europa un allargamento dei
parametri per guadagnare dieci, quindici miliardi da destinare alla riforma del
fisco e agli investimenti. Per la crescita ne servirebbero, in realtà, molto di
più: almeno trenta. Ma bisognerebbe sfondare il tetto del tre per cento, e non
è possibile. Prima della crisi greca era questa l’exit strategy immaginata da
Renzi, il Renxit, per recuperare i consensi perduti. A Palazzo Chigi giurano
che dopo lo scontro sulla Grecia l’obiettivo si avvicina perché con l’Europa
nel caos nessuno vorrà negare alla virtuosa Italia una maggiore flessibilità
nei conti. E’ lecito però nutrire qualche dubbio, conil debito pubblico in
aumento e la crescita del Pil che rimane una vela senza vento. E se il progetto
dovesse fallire i Matteo Salvini e Beppe Grillo riprenderebbero voce,
provvisoriamente abbassata dopo la resa di Alexis Tsipras.
Marco Damilano – Dopo la Grecia – L’Espresso 23 luglio 2015
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