“Dell’universo conosciamo solo un misero cinque per cento”,
ha scritto Carlo Rubbia su “la Repubblica”. E ha aggiunto: “Se fossi un giovane
mi getterei subito nell’impresa di capire il 95 rimanente. Questoè un momento
fantastico per essere fisici”. E i romanzieri? Dovrebbero forse limitarsi a
raccontare “realisticamente” quel 5 per cento? Ecco, se siamo disposti a
concedere anche alla letteratura di avventurarsi nell’ignoto con gli strumenti
suoi propri,oltre gli schemi di realtà abituali e le strutture narrative
fondate su uno spazio-tempo pre-einsteiniano, per tentare dimensioni mentali e
immaginative mai percorse prima, allora siamo nella disposizione giusta per
leggere “Gli increati” di Antonio Moresco. Terza parte di un’opera non grande
ma smisurata, che comprende anche “Gli esordi” e “Canti del caos”. “Gli
increati” (Mondadori)è un avventura totale, poetica e di conoscenza. Avanza
nell’impensato con un ardire che è difficile trovare in un filosofo dei nostri
giorni (più facile in uno scienziato). Ad esempio il tempo, che noi crediamo
lineare e progressivo, qui si curva ed è come spaccato in due: “Perché ogni
cosa successa prima, è successa dopo”. E la morte, che siamo abituati a pensare
dopo la vita, qui invece viene prima: perché la vita è tutta “dentro alla morte
che viene prima”. Possono sembrare temi metafisici, ma sono più vicini alla
realtà di quanto s’immagini. Non vediamo forse nel cielo la luce di galassie
morte milioni di anni fa? E se la vita e morte sono allora dentro a un solo
cerchio di creazione e di distruzione, che nemmeno la resurrezione è in grado
di spezzare. “Perché vuoi farmi risorgere” chiede Lazzaro a Gesù venuto a
resuscitarlo, “solo per farmi morire di nuovo? Perché vuoi gettarmi di nuovo
nella catastrofe della vita?”, La storia evangelica qui viene scavata dal di
dentro (non solo continuata, come nel bel racconto di Leonid Andreev) fino a
mostrarne il blocco. Fuori da questo circolo ripetitivo di creazione e di
distruzione esiste qualcos’altro? Sì, per lo meno questo è ciò che il libro ci
porta a intuire e a esprimere man mano, con la forza poetica del racconto e con
un pensiero che si spinge ai limiti, spostandoli sempre un po’ più in là. E’
una dimensione mai pensata prima, e quindi nemmeno mai nominata, che qui viene
chiamata “incarnazione”. Nello spazio tempo curvo degli “Increati” ritornano
molti personaggi storici, ma la prospettiva da cui si guardano le vicende umane
non è più quella della Storia. E’ più ampia, vertiginosa, direi cosmica, tale
da prendere dentro i tempi lunghi della nostra specie, sorta su questo “piccolo
pianeta sperduto” nel buio del cosmo, con tutto il suo carico di genocidi e di
guerre, dalle più antiche alle recenti, che sfumano le une nelle altre, ma
anche con tutti i suoi sogni di rivoluzione e di trascendenza. Si è spesso
evocato Dante per questo moderno viaggio in un aldilà. Ma a parte il fatto che
Dante ci parla di due sole dimensioni, la vita e ciò che viene dopo, mentre qui
ne compare una terza, l’increato, l’analogia va colta su un altro piano. Uno
dei fili conduttori del libro, e forza trainante del suo movimento musicale e a
valanga, dove ogni cosa viene ripresa e spostata più in là (anche elementi
delle opere precedenti, compresi i due protagonisti, il Gatto e il Matto), è
una storia d’amore che squarcia il buio e conduce in un’altra dimensione. E a
guidare il cammino è una figura femminile memorabile, luminosa, corporea e
spirituale: una proiezione armoniosa assoluta che richiama attraverso i secoli
il gesto di Dante.
Carla Benedetti – Autori di culto – L’espresso – 2 luglio
2015 -
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