C’è un problema che mi appassiona, riducibile per brevità a
due definizioni: “società liquida” o “società rigida”. (..), so che lei
sostiene la rigidità dell’attuale società, richiamandosi alle strutture
economiche del mondo contemporaneo fondato sull’assolutezza dei mercati che
riducono all’impotenza i singoli individui. Morte di ogni forma di umanesimo in
nome del dio denaro. E in tutto ciò concordo con lei. Ma il sociologo polacco
Zygmunt Bauman propende per la “liquidità della società” con riferimento alla
fine delle ideologie e alla perdita di punti di riferimento tradizionali e
sicuri: dallo Stato, ai partiti, ai sindacati, al lavoro, alla famiglia. Ora,
vorrei chiederle se la sua contrapposizione a Bauman dipende dal tipo di
approccio all’analisi della società, che per lei è innanzitutto economico e per
il suo collega, direi, antropologico. E in buona sostanza se sia più disperante
“sentirsi” rigidi o liquidi.
Giuseppe Gardella – Genova
Le sue considerazioni che individuano le differenti analisi
della società contemporanea condotte da Zygmunt Bauman e da me è corretta.
Bauman definisce “liquida” la nostra società perché sono venuti meno i punti di
riferimento fondamentali che le davano forma e struttura, e al loro posto è
subentrata una totale libertà dell’individuo che può scegliere il proprio stile
di vita a prescindere da usi, costumi e tradizioni, fino al nuovo modo di
intendere la libertà come possibilità di revocare tutte le scelte, e di non
attenersi ai valori alla base delle società tradizionali antecedenti alla
globalizzazione. Quello che dice Bauman è vero solo perché il sociologo polacco
“constata”, senza chiedersi le ragioni di ciò che constata. Ebbene a mio parere
la nostra società s’è fatta “liquida” perché, senza che nessuno se ne
accorgesse, una massiccia colata di cemento ha imbrigliato tutta l’acqua in una
diga, disseccando il letto del fiume in cui l’acqua correva. Questa colata di
cemento di chiama “razionalità tecnica” che prevede si compiano solo azioni
capaci di raggiungere lo scopo con l’impiego minimo dei mezzi. (..). La morale
tradizionale che regolava i costumi dei nostri padri e dei nostri nonni non ha
più ragione d’essere, perché è subentrata una regola ben èiù ferrea della
morale, la regola della razionalità tecnica che, a differenza della morale
tradizionale, non prevede il perdono per le deroghe e le trasgressioni, ma nel
caso del lavoro il licenziamento, la perdita del ruolo, e alla fine
l’emarginazione sociale. La chiamiamo “liquida”, questa società dove ciascuno
all’apparenza fa quel che “vuole”, quanto per cinque giorni alla settimana fa
rigorosamente quel che “deve” e nei giorni festivi quel che “può”? La
razionalità tecnica, che impone uno stile efficiente, produttivo,
utilitaristico, ottimizzante nei suoi risultati, confligge radicalmente col
mondo della vita che si nutre di azioni all’apparenza inutili ma gratificanti,
al limite del superfluo ma ricche di godimento, sovrabbondanti nell’effusione
del linguaggio, come accade nell’amore dove la razionalità tecnica si
limiterebbe a dire “ti amo” e poi più nulla perché il resto sarebbe pura
enfasi. E così, impoveriti nel linguaggio sempre più funzionale, nei gesti
sempre più finalizzati, nelle emozioni da contenere come fattori di disturbo, nei
sentimenti resi atrofici perché disturbano i processi razionali, dobbiamo dirci
“liquidi” o, come diceva Max Weber già all’inizio del secolo scorso,
imprigionati in una “gabbia d’acciaio”, dove i giovani non a caso recalcitrano
a entrare?
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica 24 gennaio 2015
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