Sergio Mattarella,
dodicesimo presidente, è il primo siciliano a salire al Quirinale e la sua
Sicilia è il simbolo di una tragedia personale e collettiva. La fotografia del
giovane professore universitario che cerca di estrarre dalla macchina il
fratello agonizzante, è lì a ricordare che il nostro è stato un Paese violento,
brutale e che la politica, specie in Sicilia, è sempre stata un mestiere molto
pericoloso. Il luogo dove tutto ciò è ricordato, sicuramente prossima meta di
molti italiani, è il cimitero di Castellamare del Golfo, la cittadina di
provincia di Trapani da cui la famiglia Mattarella proviene. Antico borgo di
pescatori, ribelli ai piemontesi che nel 1862 vi fucilarono donne e bambini, i
castellamaresi furono eccezionali emigranti e formarono in America potenti
famiglie mafiose: i Bonventre, i Magaddino, i Maranzano, i Masseria, i
Buccellato, i Palia, i Bonanno sono l’albero genealogico di Cosa Nostra. Il
cimitero riflette questa storia, con laconiche cappelle importanti, unite a
piccole, ingenue lapidi di sconosciuti soldati uccisi nelle feroci guerre di
mafia. Lapidi dove si ricorda la loro giovinezza, l’infame tradimento e si
promette vendetta. Appartata dal resto del cimitero, la cappella della famiglia
Mattarella. Ampia, spoglia, senza orpelli, presenta due lapidi, per il padre e
il figlio. Quella di Bernardo Mattarella (1905-1971) dice: Fedele a Cristo e alla sua Chiesa/attinse all’ispirazione cristiana
l’amore per la libertà/ che con fermezza custodì nelle ore difficili/ e
promosse nella risorta democrazia/ intensamente operando nel parlamento e nel
governo della nazione/al servizio di tutto il popolo e particolarmente della
sua Sicilia/ che con determinante amore contribuì in critici momenti/ a
mantenere unita alla patria comune. Di fronte, quella di Piersanti
Mattarella (1935-1980). Presidente Della Regione Siciliana. Animato da autentica fede cristiana/
portatore di altissimi ideali civili e politici/ pensò e volle una Sicilia
diversa/ affrancata dai suoi mali secolari/ per essa si immolò in un’ora di barbarie/
nel giorni della Epifania del Signore/ Oggi è un simbolo per quanti si ostinano
a operare e a credere. La penombra della cappella, l’antico paesaggio
circostante, le parole – anche quelle non scritte – evocano destini e misteri.
La visita non lascia indifferenti. A proposito. Gli esecutori materiali
dell’omicidio di Piersanti non vennero mai trovati. La moglie vide in faccia
l’assassino e lo identificò in Giusva Fioravanti, dei Nar. Giovanni Falcone
sostenne l’accusa, ma Fioravanti fu assolto per insufficienza di prove. Nel
famoso processo contro di lui, si stabilì che Giulio Andreotti seppe del
delitto, prima e dopo direttamente dai vertici di Cosa Nostra.
Enrico Deaglio – Il Venerdì di Repubblica – 13 Febbraio 2015
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