Ho letto con molto interesse la risposta da lei data al
lettore che, nel n.902 di D, la interrogava a proposito della virtù. La sua
risposta si chiudeva con la frase riassuntiva della morale Kantiana: “La virtù
è felicità in se stessa”, da cui poi il titolo: “Essere giusti rende felici”.
Per me tuttavia essere non basta, se poi gli altri non lo sono al pari mio o
nei miei confronti. Da cristiana correi dirle che la vera felicità è in Cristo
che ci ha insegnato il perdono donandocelo, ma anche facendo si che solo
seguendo Lui si impara a perdonare e con il perdono a conservare e ricostruire
i rapporti. La filosofia Kantiana non mi insegna a vivere felice perché non mi
insegna a giustificare, a capire, a scusare, a perdonare. I perdono è divino,
ed è un sacramento la confessione, nel senso che Dio mette il Suo sigillo in
questo gesto: il perdono. Mi piacerebbe che lei pubblicasse le mie poche righe
per far capire a tutti che solo seguire Cristo, anche per i laici, rende felici.
Emma Rossi – emmarossi15@gmail.com
Quando Kant dice che “la virtù è felicità in se stessa”
intende dire che non si è virtuosi se si pratica la virtù in vista di uno scopo
gratificante. Se do l’elemosina a un povero per sentirmi psicologicamente
gratificato dal mio gesto, non sono davvero virtuoso, perché quel che mi motiva
non è quel gesto, ma la gratificazione che provo nel compierlo. Quando la virtù
ha in vista uno scopo,il compierla non ha per Kant un valore morale, ma un
valore utilitaristico, dal momento che l’azione non viene compiuta perché la si
riconosce buona in sé, ma per il vantaggio che ne deriva. Per questa ragione
Kant ritiene che la morale cristiana non è una vera morale, perché le azioni
buone vengono compiute in vista di una ricompensa quale può essere la salvezza
dell’anima e il paradiso. Di conseguenza sono azioni “interessate” e non
“morali”. E una morale che si fonda sull’interesse non può valere per tutti.
Per stare al nostro esempio, chi non crede all’immortalità dell’anima o al
paradiso non si sente obbligato a compiere azioni che sono considerate
“virtuose” in vista di quel premio. Detto questo, veniamo al tema del perdono.
Se il perdono prevede, come nel sacramento della confessione, la cancellazione
della colpa, a mio parere non si deve assolutamente perdonare perché, come
recita un motivo della teologia medioevale: “Factum infectum fieri non potest,
neque Deus” (“Neppure Dio può far sì che un fatto avvenuto non sia avvenuto”).(..).
Questa mia posizione, in nessun modo favorevole al perdono inteso come
cancellazione della cola, la si comprende solo se si evita di pensare che il
contrario del perdono è la vendetta. Se uno mi offende, posso “per dono”
evitare di vendicarmi, e questo è l’unico perdono che riesco a concepire. (..).
A questa logica, ci segnala Nietzsche, si è sottratto il cristianesimo, che ha
fatto di Dio l’eterno creditore nei confronti dell’uomo, a cui non è concesso
di riparare i suoi debiti nei confronti di Dio, perché solo un sacrificio di
suo Figlio li può riparare. Questo è stato, scrive Nietzsche, “il colpo di
genio del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo,
Dio come l’unico che possa riscattare l’uomo da ciò che per l’uomo stesso non è
più riscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore
(dobbiamo crederci?), per amore del suo debitore!” (Genealogia della morale S
21). Come vede, gentile lettrice, il perdono non è, come lei dice: “divino”.
Divina è semmai l’incapacità di Dio di accettare la riparazione da parte
dell’uomo dei propri debiti.
umbertogalimberti@repubblica.it
- Donna di Repubblica – 14 febbraio 2015
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