Era Il 1977, Ventenne, esordivo da giornalista
nelle testate del Partito comunista italiano, ai tempi di Enrico Berlinguer. Città Futura, Rinascita. Facevo
l’inviato sindacale. Frequentavo gli operai della Fiat-Mirafiori, dell’Alfa
Romeo di Arese o Pomigliano d’Arco. Ammiravo il leader dei metalmeccanici Bruno
Trentin. La classe operai, sulle sue spalle, doveva traghettare l’Italia verso
un futuro migliore. Non è andata così. Ho celebrato i quarant’anni di attività
a Detroit, altra capitale dell’auto. Ho incontrato lì altri metalmeccanici:
quelli che hanno votato Trump. Fra queste estremità della mia vita c’è in mezzo
un segnale premonitore: ero corrispondente a Parigi a metà degli anni ’80,
quando di colpo la “banlieue” operaia passò dal Partito comunista al Fronte
nazionale di Le Pen padre. Com’è stato possibile? Perché la classe operaia –
quel poco che ne rimane in un’industria stremata dalle delocalizzazioni; p i
mestieri di servizio, che pagano ancora meno – è diventata in molti paesi la
base delle destre e dei populismi? Sarà questo lo spunto di partenza delle mie
nuove performance teatrali. I primi “musical” dedicati al presidente. Trump
Blues, andrà in scena al festival La Repubblica
delle idee il 18 giugno, a Bologna. L’Età
del Caos: il tradimento delle élite
genera mostri, avrà la sua prima al Festival di Spoleto il 9 luglio. Sul
palcoscenico con me ci sarà la coppia di musicisti che mi accompagnavano quando
spiegavo l’economia con i Beatles; Valentino Corvino e Roberta Giallo. Stavolta
ci sarà un attore vero: mio figlio Jacopo, co-autore delle sceneggiature e
interprete. Con lui mi attendo più spettacolo, più teatro, rispetto alle mie
performance precedenti che erano nella categoria del “giornalismo in scena”. E
poi il duetto padre-figlio metterà a nudo la tensione generazionale. Jacopo,
come la maggioranza dei suoi coetanei, americani o europei, ha un reddito che è
una frazione di quello di suo padre, precarietà totale, aspettative di
miglioramento economico a dir poco aleatorie. Anche questo fa parte del
tradimento delle élite, delle storture gravi che hanno portato Trump alla Casa
Bianca. La colonna sonora ce la daranno i Rolling Stones, Bob Dylan, Simon
& Garfunkel. Alcuni brani li ha scelti Trump per me: nonostante le diffide
dei Rolling Stones, i suoi comizi elettorali si aprivano con You Can’t Always Get What You Want (non
puoi sempre avere quello che vuoi). Titolo premonitore, una sorta di
avvertimento subliminale alla sinistra americana. Altri canzoni le ho scelte io
per la loro cattiveria, amarezza, brutalità. La Sinfonia per il Diavolo, sempre dei Rolling Stones, è una feroce
rivisitazione della storia umana in cui il demonio rivendica orgogliosamente le
nostre atrocità. Like a Rolling Stone di Bob Dylan fu uno strappo rispetto alle
utopie buoniste degli anni ’60. Lì appare quella frase, “to be on your own”
(essere solo, per conto tuo, abbandonato dagli altri), che presagiva la fine
del sogno solidaristico, delle grandi esperienze collettive, dell’unione
mistica con tutti gli animi ottimistici e progressisti. Joan Baez, in quegli
anni sua compagna artistica e sentimentale, non finisce di rimproverargli quel
cinismo neppure oggi. Per capire ciò che è accaduto alla classe operaia, prendo
in prestito un’immagine usata dalla scrittrice Ardie R. Hochschild nel
bellissimo libro Strangers in Their Own
Land. I bianchi poveri che hanno votato Trump immaginano l’accesso al Sogno
Americano come una lunghissima fila, che si muove sempre più lentamente o
addirittura si è fermata. Ogni tanto dalla fine della coda si staccano gli
ultimi arrivati. Minoranze etniche, minoranze sessuali. La sinistra premurosa
li fa accomodare più avanti. Così i penultimi diventano ultimi; e sempre più rabbiosi.
Federico Rampini –Opinioni – Donna di La Repubblica – 27
maggio 2017
Nessun commento:
Posta un commento