Agata ha I Capelli
Rossi, grandi occhi
blu, una curiosità accogliente, una sorella piccola e un pupazzo enorme di
Topolino. La incontro ai giardini, mi osserva con uno sguardo vigile e
buffamente pettegolo, si siede accanto ame e alla sua mamma e mi mostra un
album di fotografie. C’è dentro lei dal suo giorno uno fino a oggi. “Questa
sono io”, dichiara puntando il dito sulla sua versione neonata, poi si alza e
corre verso lo scivolo perché a tre anni la vita, oltre a stare tutta nelle
pagine di un quaderno, è fatta di priorità e urgenze. È un pomeriggio di sole e
la piccola testa rossa di Agata spunta tra la folla dei bambini che giocano.
Con quella luce calda il mondo sembra un posto comodo. Un ragazzetto le si
avvicina fissandola. “Che schifo di faccia”, dice. Lo sguardo stupito di lei si
sofferma per un attimo sugli spigoli acuminati di quelle parole. In Wonder di R.J. Palacio, un bellissimo
libro che racconta la storia di August, un undicenne speciale e diverso, ci si
imbatte in un precetto luminoso: “Quando ti viene data la possibilità di
scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”. “Ciao,
io sono Agata, E tu chi sei?”, risponde lei, bambina dai capelli rossi o sublime
gigante. Come il protagonista di Wonder, Agata è nata con la sindrome di
Treacher Collins, che provoca gravi malformazioni facciali dovute a uno scarso
sviluppo di alcune parti del cranio e di tessuti del volto, e problemi
respiratori per il volume ridotto delle vie aeree. Ha già subito vari
interventi chirurgici e altri la aspettano negli anni a venire ma a livello
motorio e intellettivo è come gli altri, se non di più, perché la sofferenza e
la necessità regalano o infliggono superpoteri. Ursula, la sua mamma, ha il
sorriso disarmato e candido di una ragazzina, che contrasta con la forza quieta
e la saggezza coriacea che la abitano. Racconta una storia di terapia
intensiva, di scuole non attrezzate all’accoglienza della ricerca affannosa dei
medici giusti, di traguardi gioiosi, di solidarietà inaspettata ma anche di
reazioni scomposte, di una società immatura e impreparata alla diversità.
Mentre il marito, Marco, con l’equilibrio dei funamboli e la dolcezza dei papà,
accompagna per mano Agata tra insidie e meraviglie di un parco giochi, Ursula
mi parla della solitudine dei genitori, della paura del futuro, della sua
pervicacia nel lavorare a tempo pieno, di incontri fortunati, delle risorse
economiche e mentali necessarie, dell’impegno duro e gratificante di accudire
una bimba con una tracheotomia, un apparecchio acustico e un futuro pieno di
incertezze, della donna migliore che è diventata grazie ad Agata. Ci son
bambini e adulti che domandano con risetto. E lo apprezzo. Ci sono madri che
dicono ai figli: “Non guardare!”. Ci sono ragazzini che insultano o che – ed è
quello che più mi fa male – fuggono da lei che li guarda incredula e, ancora
per poco, inconsapevole”. Agata non è malata, è diversa, spiega Ursula
sorridendo orgogliosa della sua bimba speciale. “Lei, e i bambini come lei,
sono esempi straordinari per la capacità di superare gli ostacoli. Bisognerebbe
togliersi il cappello al loro passaggio, non compatirli. Mia figlia è la
persona che più stimo. Mio marito e io facciamo di tutto per essere alla sua
altezza e per darle il meglio”. È tardi. Saluto Agata. “Vieni a mangiare a casa
mia?”, mi chiede. “Oggi non posso, grazie. Un’altra volta. Ti porto anche i
miei bambini, se vuoi”. “Va bene”. Mi stringe la mano, con la fiducia generosa
di chi non ha paura. Quella fiducia che troppo spesso manca a noi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica 27
maggio 2017 -
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