Curva Sui Miei delicati
piedini per sistemare i disastri che combino con il tronchesino, Ines, come
dice il suo nome ricamato sulla divisa, l’addetta alla pedicure, s’affanna in
uno dei lavori più ingrati e peggio pagati che esistano. Un po' per l’imbarazzo
che sempre provo in queste occasioni, un po' perché ho il vizio di trattare
tutti come esseri umani e di voler comunicare con loro, le domando da dove
venga. L’ho sentita parlare in spagnolo e i tratti del suo viso da india non
lasciano dubbi sul fatto che sia arrivata in questo sobborgo di New York dal
sud della Frontiera, quel confine col
Messico che Trump vuole blindare. “Equador”, mi rispose. “Anche le sue
compagne”, chiedo. “Io sono del Guatemala”, interviene la vicina alla sua
sinistra. “Io dal Salvador”, quella a destra, e in una strana reazione a catena
anche le altre cominciano a dichiarare la loro origine nazionale, Messico,
Honduras, Costa Rica, Nicaragua. Soltanto quando il boss che troneggia dalla
cassa, un “Chino”, mi sussurra la mia
pedicurista, un cinese, scocca un’occhiataccia, le donne tornano a concentrarsi
su unghie, calli, duroni, limette e lacche. In quel Nail Salon, come ce ne sono
a dozzine lungo ogni strada di sobborgo, si concentra la parabola del Sogno
americano. Le ondate umane che si sono susseguite su queste sponde dagli oceani
e poi alle vie di terra da sud hanno cominciato tutte la loro arrampicata sulla
parete rocciosa della società cominciando dai lavori più umili. Noi italiani
partimmo dalle strade, quelle strade che i traghettatori disperati raccontano
come se fossero “lastricate d’oro in Ammerega”
e poi, scrisse un emigrato, “non soltanto non erano d’oro, ma non erano neppure
lastricate e toccava a me lastricarle”, senza contare quelli che scelsero vie
traverse. Gli europei dell’Est dai cantieri edili. Gli irlandesi dal
Facchinaggio nei porti. I cinesi spaccandosi la schiena nel deporre traversine
e poi nelle lavanderie. I latinos nei
campi a raccogliere frutta e verdure. Oggi gli arabi, gli africani, i pakistani
gli afghani cominciano guidando taxi e autonoleggio. Lentamente, dolorosamente,
non sempre con successo, i braccianti di una generazione diventano i datori di
lavoro di quella successiva. Lo stradino si faceva una piccola impresa edile,
il cameriere apriva un ristorante, la lavandaia di Shanghai comperava la
lavanderia, l’ebreo taglieggiato dai banchieri diventava il banchiere, la
cinese che limava le unghie la proprietaria del “Salone”. L’autista il
proprietario di una piccola flotta di automobili. Come un’insaziabile idrovora
di umanità, l’America, il Grande Norte,
risucchiava morti di fame e ne trasformava milioni in piccoli, medi e a volte
grandi padroni, come lo stesso presidente Trump, nipote di un emigrato tedesco,
Frederich, che sbarcò in Usa nel 1885 lavorando come “ragazzo spazzola”, come
garzone di barbiere. Sfruttatori, ma insieme creatori di lavoro e di occasioni.
Non c’è azienda, grande o piccola, che non racconti la stessa storia di
pedicure illustre. Il proprietario è un cinese che stirava camicie sposato con
un’iraniana fuggita dopo a rivoluzione Khomeinista, che ricuciva tappeti. E tra
queste donne, alcune appena ragazze, che limano e tagliano e pitturano unghie
c’è sicuramente quella che un giorno aprirà il proprio negozietto. Ma la
domanda che mi insegue, uscendo dal Nail Salon con i piedini da Cenerentola
pronti per la scarpetta di cristallo, è: che cosa accadrà se l’idrovora umana
sarà bloccata, se l’America sarà trasformata in una centrifuga chiusa, capace
soltanto di agitare al proprio interno chi già c’è, fermandosi alla fine su se
stessa? La macchina del sogno è stata una macchina spietata, ma è la macchina
che ha creato l’America. Buona fortuna, Ines, che per te il sogno non si fermi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna
di La Repubblica – 17 giugno 2017 -
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