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domenica 25 giugno 2017

Lo Sapevate Che: Il sogno americano un'unhia alla volta...



Curva Sui Miei delicati piedini per sistemare i disastri che combino con il tronchesino, Ines, come dice il suo nome ricamato sulla divisa, l’addetta alla pedicure, s’affanna in uno dei lavori più ingrati e peggio pagati che esistano. Un po' per l’imbarazzo che sempre provo in queste occasioni, un po' perché ho il vizio di trattare tutti come esseri umani e di voler comunicare con loro, le domando da dove venga. L’ho sentita parlare in spagnolo e i tratti del suo viso da india non lasciano dubbi sul fatto che sia arrivata in questo sobborgo di New York dal sud della Frontiera, quel confine col Messico che Trump vuole blindare. “Equador”, mi rispose. “Anche le sue compagne”, chiedo. “Io sono del Guatemala”, interviene la vicina alla sua sinistra. “Io dal Salvador”, quella a destra, e in una strana reazione a catena anche le altre cominciano a dichiarare la loro origine nazionale, Messico, Honduras, Costa Rica, Nicaragua. Soltanto quando il boss che troneggia dalla cassa, un “Chino”, mi sussurra la mia pedicurista, un cinese, scocca un’occhiataccia, le donne tornano a concentrarsi su unghie, calli, duroni, limette e lacche. In quel Nail Salon, come ce ne sono a dozzine lungo ogni strada di sobborgo, si concentra la parabola del Sogno americano. Le ondate umane che si sono susseguite su queste sponde dagli oceani e poi alle vie di terra da sud hanno cominciato tutte la loro arrampicata sulla parete rocciosa della società cominciando dai lavori più umili. Noi italiani partimmo dalle strade, quelle strade che i traghettatori disperati raccontano come se fossero “lastricate d’oro in Ammerega” e poi, scrisse un emigrato, “non soltanto non erano d’oro, ma non erano neppure lastricate e toccava a me lastricarle”, senza contare quelli che scelsero vie traverse. Gli europei dell’Est dai cantieri edili. Gli irlandesi dal Facchinaggio nei porti. I cinesi spaccandosi la schiena nel deporre traversine e poi nelle lavanderie. I latinos nei campi a raccogliere frutta e verdure. Oggi gli arabi, gli africani, i pakistani gli afghani cominciano guidando taxi e autonoleggio. Lentamente, dolorosamente, non sempre con successo, i braccianti di una generazione diventano i datori di lavoro di quella successiva. Lo stradino si faceva una piccola impresa edile, il cameriere apriva un ristorante, la lavandaia di Shanghai comperava la lavanderia, l’ebreo taglieggiato dai banchieri diventava il banchiere, la cinese che limava le unghie la proprietaria del “Salone”. L’autista il proprietario di una piccola flotta di automobili. Come un’insaziabile idrovora di umanità, l’America, il Grande Norte, risucchiava morti di fame e ne trasformava milioni in piccoli, medi e a volte grandi padroni, come lo stesso presidente Trump, nipote di un emigrato tedesco, Frederich, che sbarcò in Usa nel 1885 lavorando come “ragazzo spazzola”, come garzone di barbiere. Sfruttatori, ma insieme creatori di lavoro e di occasioni. Non c’è azienda, grande o piccola, che non racconti la stessa storia di pedicure illustre. Il proprietario è un cinese che stirava camicie sposato con un’iraniana fuggita dopo a rivoluzione Khomeinista, che ricuciva tappeti. E tra queste donne, alcune appena ragazze, che limano e tagliano e pitturano unghie c’è sicuramente quella che un giorno aprirà il proprio negozietto. Ma la domanda che mi insegue, uscendo dal Nail Salon con i piedini da Cenerentola pronti per la scarpetta di cristallo, è: che cosa accadrà se l’idrovora umana sarà bloccata, se l’America sarà trasformata in una centrifuga chiusa, capace soltanto di agitare al proprio interno chi già c’è, fermandosi alla fine su se stessa? La macchina del sogno è stata una macchina spietata, ma è la macchina che ha creato l’America. Buona fortuna, Ines, che per te il sogno non si fermi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 17 giugno 2017 -

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