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sabato 17 giugno 2017

Lo Sapevate Che: Le case altrui sono finestre sul prossimo...



Mio Figlio Piccolo è rientrato a casa dai giardini con l’aria di chi non capisce una domanda o non conosce una risposta. Il suo sguardo perennemente diffidente era velato da un’ombra di inquietudine e perplessità. “Fausto mentre giocavamo a calcio mi ha detto: “Io ti brucio la famiglia” “.  Ammetto colpevolmente che la mia prima reazione al cospetto di questa agghiacciante minaccia è stata una grassa risata. Perché l’immagine di un ragazzetto di sette anni, minuscolo e spietato, che nei giardinetti di quartiere, tra le altalene e lo scivolo, lancia strali di inaudita ferocia contro un suo simile parimenti minuscolo seppur meno spietato, evoca in me la surreale comicità di una vignetta di Peanuts ben più che l’orrore di un’intimidazione mafiosa. “Sei preoccupato? Per te, per noi, per la nostra sicurezza? Pensi che Fausto voglia veramente farci del male?”, ho domandato. “No, credo di no: lui non mi odia veramente”, ha risposto con noncuranza. “Perché, secondo te Fausto parla in questo modo e dice cose terribili?” ho incalzato. “Non lo so. Forse le sente a casa”. “E tu cosa ne sai? Non sei mai stato a casa di Fausto”. “Lo so e basta”. L’argomento, agli occhi di mio figlio evidentemente sviscerato, non è più stato sollevato. E per il momento la nostra famiglia è ancora incolume. Penso spesso a Fausto e alla o casa. Chissà se fra quelle pareti rimbalzano veramente parole inadatte a un bambino e in fondo anche a un adulto. Penso spesso alle case degli altri, ai mondi che vi si nascondono, alle vite che vi trascorrono, consumandosi o sbocciando, alle storie che vi si vivono o vi si raccontano. Tempo fa mi sono imbattuta per caso in una fotografa statunitense, Lois Bielefeld, che per due anni ha catturato immagini domestiche all’ora di cena, documentando un rito identico a se stesso e diverso per ognuno di noi. C’è qualcosa di più ipnotico del guardare non visti l’intimità delle altrui abitazioni? Da ragazzina c’era la noia del mio appartamento al primo piano. E poi, al terzo, c’era la famiglia bionda e perfetta della mia amica Nina, dove trascorrevo i pomeriggi, nonostante un fratello sadico e un papà intimidente. L’atmosfera ovattata, al sapore di tagliatelle al ragù e al profumo di appretto, i pavimenti soffici coperti di moquette e tappeti, il senso di permanente accudimento grazie a una mamma casalinga e solerte hanno aggiunto un candore tiepido alla mia infanzia. Quando feci irruzione la prima volta, poco più che ventenne, a casa della famiglia barese di mio marito, trovai un caos incontenibile, estenuante e felice. “Voglio che la mia vita somigli a questo magma chiassoso”, pensai allora. E così è stato. Quando a otto anni fui invitata a casa della mia maestra, mi parve di arcare i cancelli di un paradiso al primo piano. E di entrare nel cerchio magico della sua benevolenza. “Non puoi stare sempre a casa di Giacomo! Dico a mio figlio di mezzo che staziona nelle famiglie altrui come un Paguro bernardo. “Mi piace perché sa di buono, c’è silenzio e nell’armadio in cucina si trovano merende deliziose”, risponde lui, senza vergogna. Come non capirlo? Le case altrui sono finestre sul prossimo e su un privato inviolabile e irresistibile. Ogni casa racconta la storia di chi la abita. A volte qualcuno magari un bambino, apre lo spiraglio di una porta da cui si intravede una cucina o un abbaglio. Tuttavia se da quella fessura passa anche solo un sentore di ferocia, vorrei avere la certezza che sia solo l’eco surreale di un fumetto arguto. E nient’altro.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 10 giugno 2017

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