Mio Figlio Piccolo è rientrato a casa dai giardini con
l’aria di chi non capisce una domanda o non conosce una risposta. Il suo
sguardo perennemente diffidente era velato da un’ombra di inquietudine e
perplessità. “Fausto mentre giocavamo a calcio mi ha detto: “Io ti brucio la
famiglia” “. Ammetto colpevolmente che
la mia prima reazione al cospetto di questa agghiacciante minaccia è stata una
grassa risata. Perché l’immagine di un ragazzetto di sette anni, minuscolo e
spietato, che nei giardinetti di quartiere, tra le altalene e lo scivolo, lancia
strali di inaudita ferocia contro un suo simile parimenti minuscolo seppur meno
spietato, evoca in me la surreale comicità di una vignetta di Peanuts ben più
che l’orrore di un’intimidazione mafiosa. “Sei preoccupato? Per te, per noi,
per la nostra sicurezza? Pensi che Fausto voglia veramente farci del male?”, ho
domandato. “No, credo di no: lui non mi odia veramente”, ha risposto con
noncuranza. “Perché, secondo te Fausto parla in questo modo e dice cose
terribili?” ho incalzato. “Non lo so. Forse le sente a casa”. “E tu cosa ne
sai? Non sei mai stato a casa di Fausto”. “Lo so e basta”. L’argomento, agli
occhi di mio figlio evidentemente sviscerato, non è più stato sollevato. E per
il momento la nostra famiglia è ancora incolume. Penso spesso a Fausto e alla o
casa. Chissà se fra quelle pareti rimbalzano veramente parole inadatte a un
bambino e in fondo anche a un adulto. Penso spesso alle case degli altri, ai
mondi che vi si nascondono, alle vite che vi trascorrono, consumandosi o
sbocciando, alle storie che vi si vivono o vi si raccontano. Tempo fa mi sono
imbattuta per caso in una fotografa statunitense, Lois Bielefeld, che per due anni
ha catturato immagini domestiche all’ora di cena, documentando un rito identico
a se stesso e diverso per ognuno di noi. C’è qualcosa di più ipnotico del
guardare non visti l’intimità delle altrui abitazioni? Da ragazzina c’era la
noia del mio appartamento al primo piano. E poi, al terzo, c’era la famiglia
bionda e perfetta della mia amica Nina, dove trascorrevo i pomeriggi,
nonostante un fratello sadico e un papà intimidente. L’atmosfera ovattata, al
sapore di tagliatelle al ragù e al profumo di appretto, i pavimenti soffici
coperti di moquette e tappeti, il senso di permanente accudimento grazie a una
mamma casalinga e solerte hanno aggiunto un candore tiepido alla mia infanzia.
Quando feci irruzione la prima volta, poco più che ventenne, a casa della
famiglia barese di mio marito, trovai un caos incontenibile, estenuante e
felice. “Voglio che la mia vita somigli a questo magma chiassoso”, pensai
allora. E così è stato. Quando a otto anni fui invitata a casa della mia
maestra, mi parve di arcare i cancelli di un paradiso al primo piano. E di
entrare nel cerchio magico della sua benevolenza. “Non puoi stare sempre a casa
di Giacomo! Dico a mio figlio di mezzo che staziona nelle famiglie altrui come
un Paguro bernardo. “Mi piace perché sa di buono, c’è silenzio e nell’armadio
in cucina si trovano merende deliziose”, risponde lui, senza vergogna. Come non
capirlo? Le case altrui sono finestre sul prossimo e su un privato inviolabile
e irresistibile. Ogni casa racconta la storia di chi la abita. A volte qualcuno
magari un bambino, apre lo spiraglio di una porta da cui si intravede una
cucina o un abbaglio. Tuttavia se da quella fessura passa anche solo un sentore
di ferocia, vorrei avere la certezza che sia solo l’eco surreale di un fumetto
arguto. E nient’altro.
Claudia de
Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 10 giugno 2017
Nessun commento:
Posta un commento