“Quando e come è successo che i
giornalisti sono venuti meno al loro ruolo di informare? Non si può parlare di
immigrazione solo in chiave emergenziale. Quando giro per strada o aspetto
l’autobus vengo guardato male, come un immigrato che crea problemi, mentre
invece sono uno studente di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma”. James
è nero di pelle, africano di provenienza e parla italiano meglio dei relatori
(tra i quali il sottoscritto) che da un’oretta circa, convocati dall’Unicef, si
stanno confrontando nell’aula magna della sua università sul ruolo dei media
nel racconto dell’immigrazione. Dopo due giri di tavolo ho chiesto agli
studenti di fare domande. E la prima che arriva, puntuale, precisa e
disarmante, è quella di James. All’inizio rispondo buttandola in caciara sul
fatto che pure l’immagine di “studente universitario” in Italia non sia una
delle più apprezzate. Poi brancolo, insieme agli altri, alla ricerca di una
risposta che, pur nella fuorviante generalizzazione della domanda (non sono
comunque pochi quelli che in Italia stanno cercando di raccontare onestamente
il fenomeno dell’immigrazione), colga il punto sollevato da James. E alla fine,
senza trovare una data di partenza, ci troviamo d’accordo sul fatto che il
giornalismo, trainato dalla politica, non ha resistito alla tentazione del pop,
ha scoperto che la paura “tira” più del ragionamento. Che lo slogan è più
efficace di un reportage e che la professione e l’esperienza (in politica come
nel giornalismo) sono ormai percepiti dal pubblico più come colpa che come
merito, un privilegio anziché una conquista. Il progressivo inarrestabile ed
evidente scadimento verso il basso delle classi dirigenti di questo Paese
(soprattutto a sinistra, laddove si è persa nella fretta la necessitò di
offrire una visione di società più giusta) ha infine prodotto il cupo affresco
nel quale si trova dipinto James senza riconoscersi. Dopo di lui intervengono
due studentesse albanesi, in Italia da 25 anni, con figli che non sono ancora
italiani perché non maggiorenni. Una delle due è avvocato: la sua arringa per
un’informazione più sana è tanto appassionata quanto frustrante da ascoltare.
Loro, semplicemente, non accettano la “narrazione” che prevale. Sanno, perché
ne sono i protagonisti, che è scorretta, politicamente e umanamente. Mentre ci
raccontano queste cose realizzo che la platea che ho davanti sembra una vecchia
pubblicità Benetton, dove però non ci si mette in posa ma si rivendicano
diritti, cittadinanza e rispetto. La nuova classe dirigente italiana, forse, è
già pronta e sembra promettere bene.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La
Repubblica – 2 Giugno 2017 -
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