Avrei La Curiosità di conoscere il suo punto di vista sul vizio della menzogna con tutte le
sue sfumature. La domanda è: ma gli uomini il linguaggio lo hanno inventato per
comprendersi o per ingannarsi? Come mai gli esseri umani mentono spudoratamente
quando non c’è necessità per la sopravvivenza?
Gianni Manfriani, via posta, Rufina (Firenze)
Se Pensiamo Che la bugia è il contrario della verità,
viene spontaneo disapprovare chi mente. Ma se consideriamo che la bugia può
essere utile alla vita, e forse più di quanto non lo sia la verità, allora il
nostro giudizio cambia, fino a far sorgere il sospetto che chi sa mentire ha
capacità cognitive decisamente più sviluppate di chi sa dire solo la verità.
Del resto anche Platone riferisce che: “Mentre coscientemente e volutamente ha
più valore che dire involontariamente la verità”. A questa conclusione sono
arrivato leggendo anni fa due libri che mi hanno molto interessato: uno di
Andrea Tagliapietra, Filosofia della
bugia (Bruno Mondadori), e l’altro di Maria Bettetini, Breve storia della bugia (Raffaello Cortina), dove i giochi tra
verità e menzogna appaiono, come in realtà sono, indiscernibili. Considerata
dal punto di vista della vita (e non della verità), diciamo subito che la bugia
non è una prerogativa unicamente umana, ma appartiene a tutti i viventi, ai
vegetali come agli animali. Gli uni e gli altri, infatti, sanno confondere chi
potrebbe recar loro danno privandolo delle informazioni necessarie per orientare
la sua condotta predatoria, oppure per attirarlo con stratagemmi mimetici, come
l’orchidea africana che imita l’aspetto dei fiori ricchi di nettare per
attirare insetti e farfalle, o come molte specie animali che, mimetizzandosi,
si confondono con l’ambiente, mettendo fuori gioco la forza dell’avversario
alla cui vista si sottraggono con l’inganno mimetico. Passando al mondo umano è
sufficiente ricordare l’Iliade, che è la prima grande narrazione della cultura
occidentale, dove la guerra è vinta non con l’uso brutale della forza, ma con
l’inganno messo in atto con l’uso sofisticato dell’intelligenza, che consente a
Nietzsche, a cui non sfugge questo passaggio, di dire che: “L’intelletto, come
mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella
finzione” (…). Non bisogna rimproverare i bambini quando mentono perché non
possiedono ancora una netta distinzione tra realtà e fantasia. E se continuano
a mentire dopo che questa distinzione è acquisita, non bisogna smascherarli con
frasi tipo: “Io ti conosco meglio di te”, “Io so tutto di te”, perché con la
bugia i bambini vogliono crearsi quel minimo di autonomia dal mondo genitoriale
che non bisogna mortificare: è il primo passo di un loro processo di
individuazione. (..). Ma oltre a ingannare gli altri c’è anche, e non è rara,
la possibilità di ingannare sé stessi, costruendo una rappresentazione di sé e
del mondo che si abita che non corrisponde per nulla alla realtà. La
psicoanalisi può essere considerata come lo svelamento dell’autoinganno di cui
è vittima l’Io che, come ci ricorda Freud, “non è padrone in casa propria”,
perché molti suoi pensieri altro non sono che razionalizzazioni di desideri
inconsci. Lo stesso diceva Marx a proposito delle ideologie: “Le idee dominanti
sono le idee della classe dominante”. Nietzsche rispondeva così alla domanda:
“Cos’è la verità? Un nobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi,
in breve una somma di relazioni umane che dopo un lungo uso sembrano a un
popolo solide e canoniche; le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la
natura illusoria”. Questo è frequente in quella forma di autoinganno in cui chi
mente finisce col credere alla propria menzogna. “Soggetti simili”, scrive Jung
di Hitler, “possono avere uno strepitoso successo e perciò essere socialmente
pericolosi, perché nulla è più persuasivo di una bugia a cui presta fede anche
colui che l’ha ideata”. Come si vede, verità e menzogna si scambiano le carte
e, in questo gioco, la posta in palio non è il conseguimento della verità, ma delle
migliori condizioni per vivere.
umbertogalimberti@repubblica.it
- Donna di La Repubblica – 27 maggio 2917 -
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