Per rendere i tumori una malattia
quasi sempre curabile basterebbe individuarli quando sono ancora una piccola,
asintomatica massa di cellule anomale, confinata in un solo organo e facile da
asportare. Fantascienza? Niente affatto: gli sviluppi di genetica, immunologia
e informatica stanno rendendo possibile realizzare test sul sangue che
individuano le neoplasie prima ancora che siano visibili con la Tac. Nei primi
giorni di maggio ne sono state annunciate ben quattro versioni diverse. Del
primo di questo test. Chiamato Iset, si è discusso molto dopo che la sua
inventrice, Patrizia Paterlini-Bréchot, docente di biologia all’Università di
Paris-Descartes, l’ha presentato nel suo libro Uccidere il cancro (Mondadori, pp224, euro 17,90) w in tv. Iset
funziona filtrando da un campione di sangue le cellule che si sono staccate
dagli organi, e poi controllando se fra di esse ci siano cellule tumorali. “Si
tratta di un tipo di esame già usato per verificare l’efficacia delle terapie
antitumorali” spiega Rosa Marina Melillo, ricercatrice all’istituto di
oncologia ed endocrinologia del Cnr, “ma presentarlo come test di
individuazione di neoplasie prima che diano sintomi credo sia prematuro”. I
dubbi dipendono dal fatto che la validazione di Iset come metodo preventivo si
basa su uno studio del 2014 fatto su sole 240 persone, di cui 168 a grave
rischio di tumore ai polmoni. Il test rivelò la presenza di cellule tumorali in
cinque dei soggetti a rischio, che vennero poi seguiti: In pochi anni tutti
svilupparono tumori ai polmoni visibili alla Tac, che furono asportati prima
che producessero metastasi, salvandoli. “Era un campione piccolo e ad alto
rischio per un solo tumore. Non sappiamo se e quando i molti tipi di cancro
esistenti rilascino cellule nel sangue e se rilevarle basti a scoprirli in
tempo o se invece provochi troppi falsi allarmi, visto che tanti tumori in fase
iniziale vengono poi distrutti dal sistema immunitario”. L’annuncio di altri
due test, ancora in fase di sviluppo, è arrivato dalla California. Entrambi si
basano sul fatto che le cellule tumorali, quando muoiono, rilasciano il loro
Dna nel sangue: il punto è come scoprirlo e capire in quale organo il tumore si
stia sviluppando. Kun Zhang, bioingegnere dell’Università della California, e
Shuli Kang, ricercatore di biologia molecolare e bioinformatica dell’Università
della Southern California, hanno indipendentemente scoperto che il Dna tumorale
si può individuare perché presenta una metilazione permette anche di capire da
quale organo provenga la cellula che ha rilasciato quel Dna. Un sistema simile,
chiamato Helixafe, lo ha ideato in Italia Bioscience Genomics, uno spin off
dell’Università di Tor Vergata a Roma. “Il genoma delle cellule subisce
continue mutazioni: quando alcune di queste si sommano in una cellula, questa
può diventare tumorale” spiega l’oncologo Andrea Mancuso, dell’Ospedale San
Camillo di Roma. “Helixafr individua nel Dna delle cellule degli organi
circolanti nel sangue 2.800 possibili mutazioni di 50 geni di interesse
oncologico. Il test ora viene usato per valutare la reazione dei tumori alla
terapia, ma pensiamo possa servire anche per individuare nei primi stadi o
addirittura segnare il rischio che si formino. Lo studio è su un vasto
campione, i risultati li avremo tra dieci anni”. Per essere utile Helixafe
dovrà essere ripetuto ogni anno: la prima volta misurerà il livello di base,
dipendente da genetica e abitudini di vita, delle mutazioni presenti nella
persona sana, poi, anno dopo anno, verificherà se quel livello è aumentato e,
in questo caso, quale organo abbia rilasciato le cellule mutate. Ma se viene
individuato un tumore come si procede? “È un punto delicato, sia perché non è
detto che poi si sviluppi, sia perché, se non è ancora rilevabile alla Tac, non
lo si può asportare né attaccare con le terapie antitumorali” spiega Melillo.
“Però” dice Mancuso “la persona può essere seguita con attenzione, ripetendo il
test e controllando l’organo coinvolto”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica – 2
giugno 2017 -
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