Ufficializzato da un
presidente americano
chiamato Donald Trump che ne aveva fatto un programma elettorale, l’insulto è
ormai parte del discorso pubblico. Non più circoscritto alla sfera della vita
privata, alle sfuriate mentre si guida o alle maldicenze al bar, oggi si
insultano fra di loro gli asociali dei social network, i capi di governo, i
leader di partito e i candidati che, come Trump, chiamavano gli avversari
“farabutti”, “nani”, “pappemolli”, “vigliacchi”. Ogni cultura ha un proprio
repertorio, e se per riflesso condizionato il nostro pensiero corre subito alle
infinite variazioni offensive basate sul sesso, negli Stati Uniti, forse in
omaggio all’anima puritana, la “top list” di chi vuol insultare punta
direttamente alla persona, all’aspetto fisico, alle facoltà mentali. Fioriscono
i classici sulla scarsa intelligenza. “Sei talmente stupido che non riusciresti
a versare acqua da uno stivale neppure se le istruzioni fossero scritte sulla
suola. “Da ragazzo ti sedevi sopra il televisore e passavi ore a guardare il
divano”, “La Coca Cola ha prodotto speciali bottiglie di vetro per te con la
scritta sul fondo: aprire dal lato opposto”. “Anche per diventare stupido
dovresti prendere due lauree”. “Tutti veniamo dalle scimmie, ma tu non hai
fatto abbastanza strada”. “È così scemo che vendette l’auto per avere abbastanza
soldi per fare il pieno”. Non si salvano neppure i nostri migliori amici dalla
furia delle offese. “Il tuo cane è così pigro che ti porta il giornale di
ieri”. “Hai un cane che cerca di rincorrere le automobili parcheggiate”.
Fioriscono le allusioni Vorrei chiederti quanti anni hai, ma so che non
riusciresti a contare tanti numeri”. L’aspetto fisico è una sorgente
inestinguibile. “Hai un viso ideale per dare la radio”. “La tua ragazza è così
brutta che si è iscritta a un concorso canino. E ha vinto”. “Sei talmente
brutto che se tu lanciassi un boomerang, rifiuterebbe di tornare indietro”.
Anche negli Stati Uniti, come in tutte le latitudini, la mamma è materia per
gli insulti più sanguinosi. Le improvvise, violentissime zuffe che scoppiano
senza apparente motivo fra giocatori di squadre di football americano o di
basket hanno spesso origine da allusioni alla virtù o al fisco della madre di
un anniversario, bisbigliare in mischia. “Tua madre è talmente grassa che in
aereo tutti siedono vicino a lei”. “È così brutta che fa piangere le cipolle
quando le taglia”. “Se facesse la spogliarellista, gli spettatori la
pagherebbero perché si vestisse”. “Tuo padre la porta con sé al lavoro per non
baciarla quando esce di casa”. Può accadere, scorrendo queste liste di insulti,
di scoprirsi a sorridere, di trovarli in alcuni casi divertenti, ma dietro le
battute ci può essere il dramma di chi li riceve. Canta una filastrocca inglese
da bambini che “Sticks and Stones Can
Break My Bones, but names can never hurt me”, pietre e bastoni possono
farmi male, non le parole: eppure non è vero. L’uso di offese e di insulti sull’apparenza,
sul nome, sull’intelligenza, è uno dei tanti e più rozzi strumenti per
stabilire una gerarchia sociale, per dare a chi offende la sensazione di superiorità
sulla vittima. Sono manifestazioni di bullismo. Non tutti hanno la prontezza di
spirito e l’autorità di Winston Churchill, che rispose a un’avversaria che lo
accusava di essere un beone: “È vero, ma domattina io mi sveglierò sobrio e lei
si sveglierà sempre brutta”. Come insegna l’esperienza di chi frequenta
Internet e i social network brulicanti di disperati che cercano di affermare la
propria personalità insultando, ribattere con offese e offese non fa che
eccitare ulteriormente gli spacciatori di odio. La sola risposta possibile è
quella che mi insegnò mio padre. Non prendeteli sul serio. Niente offende chi
offende più dell’essere ignorato.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 24
giugno 2017 -
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