Tre milioni di multa a WhatsApp per
avere forzato gli utenti a condividere i propri dati su Facebook. Ad adottare
il provvedimento è stata nei giorni scorsi l’Agcm, l’autorità italiana garante per
la concorrenza e il mercato, che l’ha considerata una pratica commerciale
scorretta. Anche perché il consenso è stato praticamente estorto, con la
minaccia di esclusione dall’uso dell’applicazione. A far gola al social di Mark
Zuckerberg è di fatto lo sconfinato bacino di informazioni su di noi e sui
nostri caratteri, gusti, interessi, inclinazioni, passioni, interazioni, sfizi,
da utilizzare per scopi pubblicitari e commerciali. Essere spiati dalla rete
non è certo una novità, ma la pratica sta assumendo dimensioni preoccupanti che
mettono in discussione le nostre libertà e i nostri diritti. Perché ormai il
traffico dei dati ha assunto le dimensioni di una verae propria tratta dei
profili. Questa volta a essere venduti
non sono individui in carne e ossa, come al tempo della tratta degli schiavi,
ma individui virtuali. Nella società di internet, all’antica concezione
della persona fisica come sintesi di corpo e mente, si è sostituita, a tutti
gli effetti, quella di persona digitale. Che è una sintesi di corpo e anima,
una sorta di doppio immateriale, ma anche un report completo della nostra vita,
per di più senza veli. In questo modo a essere vendute non sono le nostre
braccia, ma il nostro potere di acquisto e le nostre preferenze, intenzioni,
propensioni. Insomma il nostro io profilato. Così veniamo ceduti, scambiati,
esportati. Con il nostro consenso disinformato.
Marino Niola - Miti
D’Oggi – Il Venerdì de La Repubblica – 26 maggio 2017 -
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