Con La Mia Formazione scientifica vorrei ampliare la sua risposta alla lettrice che la
interroga sulla fede. In sintesi, il nostro meraviglioso cervello è un
“ammenicolo” (la definizione non è mia) assemblato dall’evoluzione in modo
approssimativo, sfruttando part antichissime che condividiamo con molti altri
animali, unite a parti più recenti, secondo il classico modus operandi
dell’evoluzione, ovvero: quello che alla meno peggio funziona a uno scopo utile
in un dato ambiente si può conservare, poi si vedrà come aggiustarlo nel tempo.
Il risultato è che la nostra capacità di elaborazione è limitata, la memoria
inaffidabile, la nostra emotività è incontrollabile, i nostri istinti associati
alle nostre abilità tecniche devastanti, sia quando funzionali alla lotta
intraspecie, che in tutti gli altri casi, con le distruzioni agòi animali e al
nostro ambiente vitale. Risulta chiaro che noi uomini siamo ancora in mezzo al
guado, né pesce, né carne, e ci dobbiamo tenere questo terribile accrocchio
neurologico che pure ci ha donato la consapevolezza di esistere. Alla giraffa è
stato allungato il collo, a noi ispessita la corteccia, ma sembra che alla
giraffa, per tanti versi, sia andata meglio. Che fare delle nostre emozioni
incontrollabili e dei nostri pensieri intrisi di deliri simbolici non ancora
stemperati dall’evoluzione? Perché uno dei problemi è che siamo prima di tutto
(ancora) animali “simbolici”, e non “sapiens”. All’interno di questo autoinganno
primordiale che ci propina il teatrino della nostra mente c’è posto
(neurologico) per spiegare tutto, dalla fede nei miracoli alle visioni dopo la
morte, dall’idea del sacro di cui la lettera che citavamo prima, fino alla
paura dei marziani, passando per l’illusione della danza della pioggia. E non
c’è bisogno di nessuna spiegazione magica o religiosa, per chi vive con
consapevolezza e conoscenza del mondo senza essere divorato dall’angoscia
essenziale e dal dolore: il mondo reale, soprattutto per uno scienziato (non
tecnico) è già magico. A. Toschi
La Sua Lettera è molto bella e mi spiace doverla
tagliare per ragioni di spazio. Lei sostiene, con le argomentazioni del tutto
condivisibili da le addotte, che “l’uomo è un animale improvvisato che
l’evoluzione non è ancora riuscita a perfezionare”. Io invece seguendo Arnold
Gehlen (L’uomo, Feltrinelli), penso che l’uomo è un essere carente, non
armonizzato con la natura, perché privo di istinti che sono risposte rigide a
uno stimolo. Neppure il famosissimo istinto sessuale nell’uomo è un istinto, ma
una semplice pulsione verso una meta indeterminata, che possiamo indirizzare
verso qualsiasi forma di perversione (come erotizzare artistiche o poetiche.
Proprio perché privo di istinti, l’uomo, a differenza degli animali, ha bisogno
di molti anni di cura e soprattutto necessita di istruzioni come argini
culturali che regolano la convivenza che negli animali è regolata dall’istinto.
Proprio perché non è condizionato da istinti, l’uomo non è neppure vincolato a
un ambiente, per cui, a differenza degli animali può vivere tanto al Polo nord
che all’Equatore, Questa plasticità è il prodotto della sua indeterminatezza, e
la sua presunta libertà, che tanto gli sta a cuore, non scende dal cielo, ma è
a sua volta il frutto di una carenza istintuale. Stabilita questa differenza
tra la sua e la mia interpretazione (che ci porta comunque alla stessa
conclusione, secondo la quale l’uomo è un impasto mal riuscito di razionalità e
di irrazionalità, con tutte le conseguenze che ne conseguono da lei
perfettamente descritte in termini di distruzione dei propri simili e del
proprio ambiente), io penso che in futuro non sono le conseguenze che derivano
dall’irrazionalità dell’uomo (da cui dipendono non solo le credenze, le fedi, i
miracoli, le visioni, le magie, gli auspici, ma anche i deliri d’amore, le
fantasie suicide, le ossessioni che ci opprimono), ma quelle che deriveranno
dal potenziamento della sua razionalità a cui lo conduce la tecnica che, per
esempio, considera uno spreco tutte le parole che gli innamorati si scambiano,
perché dal punto di vista della sua razionalità (raggiungere il massimo degli
scopi con l’impiego minimo dei mezzi) basterebbe dire “ti amo”. Il resto è
sovrabbondanza espressiva, profluvio di parole, spreco di tempo e di
linguaggio, dove è più facile il fraintendimento che l’intendimento. Io vorrei
che gli scienziati non si innamorassero troppo della loro razionalità, e gli
umanisti della loro retorica, qui assunta in senso alto. La prima può degradare
l’uomo al livello della macchina, la seconda può farlo volare in un mondo pieno
di sogni che bruscamente e anche dolorosamente svaniscono quando si perde
contatto con la realtà. Come vede, l’uomo è ancora irrisolto, Ma forse è meglio
così.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 10 giugno
2017 -
Nessun commento:
Posta un commento