L’Io Mangiante Occupa la scena urbana. Ristoranti,
pizzerie, chioschi, bar e baracchini invadono strade, piazze, giardini. Ma
anche le panchine, le scale, i luoghi di passaggio e di passeggio. Facendone
altrettanti spazi di condivisione per un popolo di sticky fingers. Che stringe
sempre fra le dita qualcosa da mettere sotto i denti. Pizzette, Kebab, piadine,
falafel, panini, tramezzini, frullati, insalate. Ma anche sushi e sashimi. E
perfino gli spaghetti nel tetrapak. Ormai i pasti si sono destrutturati. Sono
cambiati tempi e luoghi, insieme a quello che mangiamo. E al come, dove e con
chi. Distesi sui sofà, appollaiati sugli sgabelli, a cavalcioni sui cavalletti,
seduti sui marciapiedi, i cittadini globali mettono in piazza le loro
performance alimentari. Si espongono, senza pudori né timori, allo sguardo dei
passanti, creando una sorta di pubblica intimità. Una forma inedita di
socialità diffusa. Fatta di sguardi rubati, complicità intermittenti, incontri
fuggevoli. Tutti portati dalla corrente impetuosa della vita che scorre nelle
vene delle città abbattendo le barriere tra pubblico e privato. Stiamo di fatto
assistendo al tramonto della privacy alimentare tanto cara all’homo edens di un tempo. E introducendo
cadenze e liturgie collettive che incarnano lo spirito del presente. Modulare,
flessibile, occasionale, interinale. Ma anche libero di inventare tradizioni
fusion, rimettendo insieme frammenti di passato per creare segmenti di futuro.
Così affiorano usi e costumi che hanno qualcosa di nuovo, anzi d’antico. Un po'
picnic sull’asfalto, un po' baccanale metropolitano. Ma anche la vecchia
schiscetta, in versione salutista, consumata sul sagrato delle chiese, mettendo
insieme bio e Dio. In ogni caso, la pausa pranzo en plein air, figlia
primogenita del low cost e del last minute, funziona come un acceleratore di
particelle relazionali in grado di liberare energie collettive. E di creare
comunità a tempo determinato, inventare liturgie sociali che rimescolano tempi
e sapori, persone e abitudini, mode e modi, visto che sempre di più, insieme al
cibo, si vende socialità. E quando si mangia tra la folla si è in compagnia
anche senza conoscersi, perché è il luogo a fare le relazioni, aumentando l’intimità,
modificando le soglie prossemiche, accorciando le distanze di cortesia. Nuovi
miti e nuovi riti del bere e del mangiare in compagnia che cambiano anche gli
spazi sociali. Locali come gli street bar sono in questo senso un nuovo habitat
a misura di Millennial. Soglie porose, senza più confine tra interno ed
esterno. E così il cibo esce all’aperto e diventa paesaggio urbano. Del resto
le grandi mutazioni antropologiche passano da sempre attraverso la creazione di
nuove forme spaziali, dai fori e dalle agorà del mondo antico alle piazze dei
mercati, fino ai passage e alle terrasse dei caffè che, nella Parigi
del XIX secolo, diventano i templi di una società e un’economia che hanno
fretta ma non rinunciano a creare delle forme di convivialità a loro immagine e
somiglianza. E a ottimizzare tempi e relazioni, mangiare e comunicare. In
questo senso gli street bar, i negozi di finger food, le bruschetterie
frullaterie yogurterie, con i loro cibi offerti e consumati a ogni angolo di
strada, sono i passage del nostro
tempo. Acceleratori di storia. Nuovi spazi pubblici che nascono in contropiede
rispetto all’implosione domestica, al ripiegamento nel privato, che
caratterizzano la società liquida. Se la strada diventa caffetteria a cielo
aperto, nasce di fatto una nuova idea dello stare insieme. Virtuale, senza
essere immateriale. Un’area open source, che favorisce l’interconnessione tra
umanità a banda larga. Una rete in carne e ossa gettata nella polis. È la
mutazione antropologica della civiltà 2.o che si riflette in una nuova
topografia dello spazio sociale. In questo modo internet esce dallo schermo e
diventa forma di vita.
Marino Niola – Opinioni – Donna di La Repubblica – 17 giugno
2017 -
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